In questo 700° anniversario dalla morte del Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321) il mese di maggio – cantato da sempre nella Letteratura italiana fin dalle Origini (le antiche idealità cavalleresche portate nelle città ed adattate al nuovo sentire cittadino ritmano, ad esempio, i sonetti di Folgòre da San Gimignano) – riluce per devozione ed amore nell’opera omnia di Dante ma in particolare modo nella Commedia.
La vera devozione alla Vergine da parte di Dante – è oramai cosa assai certa afferma il professore Nicolò Mineo che il primo contatto col mondo della cultura sia avvenuto nel convento di santa Croce, vicino alla casa degli Alighieri – rifulge dolcemente in un passo del canto XXIII del Paradiso (vv. 88-89) dove le vertigini del cuore si fanno poesia:
«Il nome del bel fiore ch’io sempre invoco,
e mane e sera […]»
Una rima mossa e percorsa da un misticismo tessuto di felicità ma soprattutto di salvezza. Una devota rima, che alle soglie della visione di Dio, ritorna potentemente nel meraviglioso incipit del canto XXXIII: «Vergine Madre». Maria, la nuova Eva, è colta – dalla luce che invade e «squaderna» il Paradiso – nella sua ineffabile ed intima partecipazione all’evento dell’Incarnazione (Verbum caro factum est). Un evento che segna, divide la nostra storia ma che soprattutto ritmava l’inizio del nuovo anno (Capodanno fiorentino) nella città del giglio fino al 1749.
L’Incarnazione (circulazion, Paradiso, XXXIII, v. 127) è il «mistero dei misteri»: Dante vuole, desidera vedere come Dio si fa uomo:
«Qual è ’l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’ elli indige, tal era io …» (Paradiso, XXXIII, 133-136).
La poesia dantesca mariana trova il suo culmine nei canti finali della cantica del paradiso. Il capolavoro letterario è la dossologia mariana-cristologica del celeberrimo canto XXXIII del Paradiso: una vertiginosa summa di teologia e poesia:
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura» (vv. 1-6)
Una poesia-preghiera che ispirerà tanta letteratura religiosa: Petrarca, Boccaccio, Tasso, Manzoni. Una delle più grandi e sublimi pagine della Letteratura universale di ogni tempo. Un inno di grazia e salvifico che soprattutto nei versi sottostanti (vv. 13-15) sottolineano l’energia devozionale del Poeta:
«Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali».
Le rime-preghiera del canto XXXIII suggellano la grande costruzione dantesca ma soprattutto offrono all’Uomo in cammino l’orizzonte della salvezza in quel ineffabile Essere che Dante liricamente ma soprattutto filosoficamente e teologicamente celebra come l’«Amor che move il sole e le altre stelle».