Riflessioni sul testo di Immanuel Kant “Per la pace perpetua”

Articolo di Salvatore Distefano

12 febbraio del 1804 morì Immanuel Kant, uno dei più grandi pensatori della storia dell’umanità. Si spense nella sua città, Königsberg, oggi l’exclave russa di Kaliningrad, dalla quale non si allontanò mai e dove era conosciuto per la sua immensa cultura e il suo rigore morale, nonché per lo stile di vita prussianamente metodico, molto scrupoloso e abitudinario. Si dice che mantenne la levata mattutina sempre alla stessa ora (le cinque!), e sempre alla stessa ora pomeridiana la passeggiata con costanza cronometrica; fu sempre puntualissimo alle lezioni e sempre ligio ai suoi doveri.

Il filosofo J. G. Herder, in una lettera famosa, lo descrive molto bene: fronte aperta come costruita apposta per pensare, sempre sereno, arguto ed erudito, aperto a tutte le istanze della cultura contemporanea, Kant sapeva valorizzare tutto e riconduceva tutto «a una conoscenza senza pregiudizi della natura e al valore morale degli uomini» (G. Riconda, Invito al pensiero di Kant, Mursia, Milano, 1987, p. 18). E quello che Kant ci dice di sé nella conclusione della sua Critica della Ragion pratica è meraviglioso: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». (I. Kant, Critica della Ragion pratica, Rusconi, Milano, 1993, p. 319).

Vorrei, peraltro, citare alcuni passi di ciò che Fichte, filosofo che diede vita alla fondazione dell’Idealismo tedesco, scriveva di Kant dopo averlo conosciuto: «Il fine della nostra vita non è essere felici, ma meritare la felicità. Mi sono immerso nella filosofia, cioè nella filosofia di Kant. Vi ho trovato la medicina alla vera radice dei miei disagi, e per di più gioia a non finire. […] Il rivolgimento che questa filosofia ha operato in me è enorme. Le debbo, in special modo, il fatto che ora credo fermamente nella libertà dell’uomo, e vedo chiaramente che solo presupponendola sono possibili il dovere, la virtù, la morale in generale. […] Che fortuna per un’età in cui la morale era distrutta nei suoi fondamenti e il concetto di dovere era cancellato da tutti i vocabolari!». (Lettera riportata da G. Reale – D. Antiseri in Il Nuovo Storia del pensiero filosofico e scientifico, 2B Dall’Illuminismo a Hegel, Editrice La Scuola, Brescia, 2016, p. 350)

TRA UTOPIA E STORIA

E proprio in questo tempo in cui soffiano pericolosissimi venti di guerra e c’è bisogno di difendere strenuamente la pace, visto che l’Europa vive l’incubo di nuovi conflitti, resta fondamentale l’idea che l’analisi delle cause oggettive dei conflitti sociali e internazionali e l’agire concreto per il riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni persona siano premessa ineludibile all’eliminazione della violenza e alla realizzazione di una pace durevole, per quanto possono durare nel tempo le cose degli uomini.

È necessario, dunque, evitare che un conflitto atomico possa provocare l’estinzione del genere umano, battersi per la pace, come del resto afferma senza se e senza ma la nostra Costituzione (art. 11: «L’Italia ripudia la guerra …»), e mi piace ricordare il bellissimo scritto di Kant del 1795, Per la pace perpetua (Zum ewigen Frieden), che fu concepito in seguito alla notizia della pace di Basilea stipulata tra Prussia e Francia il 5 aprile del 1795, ma che trova ragion d’essere e sviluppo logico in una concezione della storia, della società e del diritto che il Nostro aveva da tempo maturato. Infatti, il progetto della pace perpetua non è concepito da Kant come un’utopia: nulla è più estraneo alla mente di Kant che il pensiero utopico. Delle utopie in genere dice che è dolce immaginarle, ma temerario proporle e colpevole sollevare il popolo per cercare di attuarle (Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio).

Kant non è un utopista perché usa incalzanti argomentazioni che stabiliscono l’analogia tra la conflittualità all’interno della società, risolta nel contratto sociale, e quella tra gli stati-nazione risolta nell’arena internazionale. È evidente l’applicazione del contrattualismo in virtù del parallelismo tra razionalità degli individui e razionalità degli stati. Non è chi non vede il riferimento al pensiero platonico e in particolare alla concezione politica del filosofo delle Idee, secondo il quale esisteva un preciso rapporto tra individuo, inteso come anima, polis (stato), e la divisione in classi della stessa città (società): produttori (lavoro manuale, banausicità), soldati (i difensori), filosofi (governo, razionalità); quindi, la condanna della guerra da parte della ragione moralmente legislatrice implica la concreta possibilità del raggiungimento della pace alla stregua di un dovere immediato, senza alcuna concessione ad “astratte” prospettive utopiche.

Il suo progetto di pacifismo giuridico non è solo ancorato saldamente a una filosofia della storia, ma è anche reso coerente dallo sfondo più ampio della sua teoria etica. Il fine della storia sociale umana è la costituzione di una società giuridica che abbracci tutta l’umanità, e che in quanto tale garantisca, insieme con la pace universale, la libertà di tutti gli individui viventi sulla terra: «il massimo problema alla cui soluzione la natura costringe il genere umano è di pervenire a una società civile che faccia valere universalmente il diritto» (Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico). (I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 4).

I filosofi, afferma Kant nel Secondo supplemento – Articolo segreto per la pace perpetua, non devono fare propaganda; essi devono, piuttosto, esercitare la funzione intellettuale. In questo caso devono pensare l’impossibilità della guerra e l’inevitabilità della pace e cercare di comunicare ciò ad altri che, con loro, condividono un mondo che ha conosciuto finora, e presumibilmente conoscerà ancora, la crudeltà della stupidità e della barbarie. Del resto, se questo progetto filosofico non si realizzasse la scritta che campeggia sull’insegna di un’osteria olandese, su cui era dipinto un cimitero, rischierebbe di valere non solo per i capi di stato che «non riescono mai a saziarsi delle guerre», o per «i filosofi che hanno quel dolce sogno», ma soprattutto «per gli uomini in generale». (I. Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 43).

ATTUALITÀ DI KANT

Qualcuno giudica inattuale il testo di Kant? Come scriveva Franco Fortini: «L’inattualità diventa, nei classici, un potente additivo di significazione. Non è una qualsiasi diversità di linguaggio o di visione del mondo. È una diversità nel massimo di somiglianza. I classici hanno con il nostro presente un rapporto perturbante, di familiarità e estraneità. Sunt aliquid Manes». (I. Kant, Per la pace perpetua, 2001, p. 13)

Ecco perché il testo che Immanuel Kant scrisse nel 1795 è tornato di stringente attualità, uno scritto che mantiene a tutt’oggi grande importanza come dimostrano i dibattiti spigolosi suscitati negli ambienti culturali europei e statunitensi sul pensatore di Koenisberg. Non per caso, qualche tempo fa l’obiettivo dei neocon d’oltre Oceano era quello di collocare Kant tra gli utopisti e utopisti sono, a loro avviso, gli europei che vivono in un paradiso post-moderno, attardandosi in negoziati, regole e trattati, mentre gli americani operano in una realtà hobbesiana dove la sopravvivenza dipende dalla forza delle armi. Come scriveva qualche anno fa un importante esponente dei conservatori statunitensi, Robert Kagan, «…gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere». (T. Judt in Il Sole -24 Ore, Domenica 13 Aprile 2003, N. 102, p. 30).

Non è chi non veda, allora, come lo scritto di Kant colpisce soprattutto i giovani che rimangono affascinati dalla visione razionale e cosmopolita, dalla concezione progressista; li attira, in particolare, nel quadro della visione del processo storico, la tematizzazione della dinamica che interessa la natura che, colta come sfondo materiale della storia dell’umanità, non può negarsi come natura, ma non dominerà in modo assoluto quando la ragione si risveglierà e contenderà all’istinto il controllo delle azioni umane. La ragione conquista territori sempre più vasti e costringe la natura a ritirarsi. A questo punto, il rapporto tra uomo e natura << si fa sempre più artificiale e in questo senso sempre più ricco di razionalità>>, dando vita ad un processo storico che affida all’uomo un ruolo centrale nell’ottica kantiana della forte sottolineatura della soggettività e del suo rapporto col mondo. (A. Burgio, Strutture e catastrofi Kant Hegel Marx, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 62).

L’UOMO E LA MORALE

Ma cos’è l’uomo per il fondatore del criticismo? Un essere bidimensionale, composito, che deve farsi guidare da quella parte della propria interiorità che è la ragione, la quale è in contrasto con le altre tendenze. Da ciò scaturisce l’autonomia morale del soggetto, la sua libertà, che è condizione della legge morale, la quale a sua volta è la condizione che ci fa diventare consapevoli della libertà: « la libertà è, bensì, la ratio essendi della legge morale, ma la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà». (I. Kant, Critica della Ragion Pratica, Rusconi, Milano, 1993, p. 39).

Peraltro, si tratta di una morale universale, come universale è la ragione; e così partendo dalla ragione abbiamo parlato di eguaglianza, universalità, libertà: ci sono due delle tre parole chiave della Rivoluzione francese, della quale Kant era grande sostenitore.

Ma torniamo alla visione dell’uomo, che nasce afflitto dal male radicale e deve fare un enorme sforzo su se stesso, per Schiller Kant lo intende in maniera drammatica, e imporsi la virtù affinché raggiunga il fine che si è dato, che è l’uomo stesso, il rispetto della sua essenza e della sua dignità, il suo perfezionamento continuo: non c’è nessun fine superiore all’uomo e in questo senso il filosofo di Koenigsberg si rivela il continuatore degli ideali più alti di tutto l’Umanesimo e della moderna civiltà europea.

La ragionevole speranza è che il confronto su questo testo possa servire a rafforzare le istanze di quanti seriamente lavorano per la pace in un mondo minacciato da guerre “folli”, ma non per questo meno devastanti.

HOBBES E SPINOZA

Ma procediamo con ordine e vediamo, innanzitutto, che Kant riprende Hobbes e Spinoza per dare più forza alle sue argomentazioni.

In accordo col grande pensatore inglese, il Nostro ritiene indispensabile passare, per quanto riguarda il genere umano, dallo stato di natura allo stato civile e fuoriuscire dalla condizione del bellum omnium contra omnes onde evitare la totale distruzione dello stesso genere umano. Per conquistare questo traguardo, solitamente si ricordano alcune regole, anche se, a dire il vero, Hobbes nel Leviatano ne elenca ben diciannove: la prima regola comanda di sforzarsi di cercare la pace (pax est quaerenda), la seconda impone di rinunciare al diritto su tutto (jus in omnia est retinendum), la terza afferma che bisogna stare ai patti (pactis standum, pacta sunt servanda). Tuttavia, questi precetti non bastano per costituire la società, visto che è indispensabile anche un potere che costringa a rispettarle: in pratica, un sovrano (può essere un individuo o un’assemblea) che non stringe un patto sociale con i sudditi in quanto ha potere assoluto: non per caso, la teoria hobbesiana dello Stato e del potere sovrano è comunemente ritenuta peculiare dell’assolutismo politico.

Anche per Spinoza, sulla base del desiderio degli uomini di vivere e di essere il più possibile al riparo dai conflitti ricorrenti, si deve giungere al patto sociale non foss’altro perché, senza il reciproco aiuto, essi non potrebbero vivere agevolmente, né coltivare il loro spirito. Questa posizione, che, per certi versi, è mutuata dall’indirizzo giusnaturalistico e da quello hobbesiano, esplicita una sostanziale differenza derivata dalla concezione spinoziana della natura e dell’uomo, da cui dipende la nozione fondamentale di «diritto» cui l’autore del Trattato teologico-politico si riferisce. Su questa base, infatti, Spinoza ritiene che il potere dello Stato non possa giungere fino al punto di impedire a ciascuno di «pensare ciò che vuole ed esprimere ciò che pensa» (L. Geymonat, Immagini dell’uomo. Filosofia, scienza e scienze umane nella civiltà occidentale, 2, Garzanti, Milano, 1989, p. 360).

È vero che tale libertà può comportare alcuni “rischi” e la cifra dello Stato è quella di tentare di limitarla facendo da contraltare alla volontà dell’individuo: il problema è trovare tra di essi un equilibrio raggiungendo la pacifica convivenza. Dunque, né sovversione, né prevaricazione statale.

LA FILOSOFIA DELLA STORIA

La filosofia della storia assume sempre più importanza anche per l’influsso esercitato su Kant dalla Rivoluzione francese, il cui significato epocale non poteva certo sfuggire al Nostro che coniuga la profondità della riflessione filosofica con una attenta osservazione della realtà del suo tempo. Kant si chiede se sia possibile individuare una direzione e una meta della storia dell’umanità o se, invece, la storia sia soltanto un disordinato e casuale elenco di eventi senza senso preciso; oppure porre il senso come se fosse orientato a un fine, anche se il concetto di fine non appartiene all’ambito della conoscenza teoretica che ha per oggetto i fenomeni (il problema del limite in Kant).

Fine per Kant vuol dire che ogni cosa possa dare piena espressione alla sua essenza, cioè la ragione, e lo scopo del genere umano è lo sviluppo delle capacità razionali dell’uomo grazie alla libertà. Sotto il comando della ragione l’uomo esce dallo stato di natura e inizia un faticoso e graduale cammino di civilizzazione che coincide con il progressivo sviluppo delle proprie potenzialità. Si realizza l’allontanamento degli uomini dall’immediata e istintuale vita animale per entrare in una relazione consapevole con i propri simili e dare vita alla società e al progresso dell’umanità. Del resto, la vita associata deriva dalla «insocievole socievolezza» (Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784, quarta tesi) (I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, 1995, p. 33) che spinge gli uomini ad unirsi in società, anche se a questa tendenza si contrappone un “naturale egoismo”: pertanto, antagonismo e desiderio di autoaffermazione svolgono la funzione positiva di stimolo del progresso. Ecco perché il cammino che dalla barbarie conduce alla civiltà non è individuale, ma può essere percorso soltanto collettivamente: gli esseri umani possono perfezionarsi solo all’interno della società. Allo stesso modo degli alberi, che isolati crescerebbero storti e deformi, mentre in una foresta, costretti dalla vicinanza a lottare per sottrarsi a vicenda aria e luce, si allungano dritti e verso l’alto.

COSA SOSTIENE NELLO SCRITTO «PER LA PACE PERPETUA»

Molti studiosi a ragion veduta hanno rivolto la loro attenzione agli scritti “minori” per conoscere e far conoscere nella sua interezza il pensiero di Kant. In particolare, gli scritti di filosofia della storia presentano una questione spesso sottovalutata della elaborazione kantiana, mentre viene studiata molto di più quando si tratta di altri pensatori come Agostino, Hegel, Marx, Nietzsche. In realtà anche in questi scritti cosiddetti minori Kant dà un saggio della sua capacità speculativa (e non poteva essere diversamente!) e del suo interesse per la storia, soprattutto in relazione alla possibile dimensione finalistica (teleologica).

La questione viene trattata secondo l’impostazione tipica del criticismo e cioè problematizzando il rapporto tra la natura e l’azione dell’uomo (la libertà del volere) che determina i fenomeni e il disegno generale che presiede all’attività del singolo. A tal proposito, il filosofo di Königsberg riprende un tema a lui caro, quello che, per certi versi, lo tormenterà fino alla fine: la metafisica è scienza? Di più: è possibile risolvere le antinomie della Ragion pura, rovesciando le aporie in euporie?

Nel testo kantiano resta fondamentale l’idea dell’analisi delle cause materiali dei conflitti e del superamento del modello antropologico: l’idea cioè che la responsabilità della guerra sia immediatamente imputabile alla natura dell’uomo è irreversibilmente superata ed infatti chiama in causa la struttura dell’ordine internazionale, in pratica l’ancien régime. Vi è un richiamo della visione machiavelliana della critica a partire dalla comprensione della realtà e di quella rousseauviana del nesso causale tra monarchia assoluta e politica di potenza, del legame tra ambito interno dello stato e quadro politico internazionale. Voltaire scriveva: «Per porre fine al flagello delle guerre bisognerebbe punire quei barbari sedentari che dal fondo del loro gabinetto ordinano, nell’ora della siesta, il massacro di un milione di uomini e poi di ciò fanno render solennemente grazie a dio» (A. Burgio, Per una storia dell’idea di pace perpetua, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 123). E Thomas Paine continuava la polemica contro i governi monarchici: «Tutti i governi monarchici sono militari. La guerra è il loro mestiere, saccheggio e rendita i loro obiettivi» (A. Burgio, Per una storia dell’idea di pace perpetua, p. 123).

Per questi pensatori la guerra è una: all’interno e all’esterno dello stato, contro i sudditi oppressi come contro i popoli stranieri, vittime anch’essi della tirannia. Non per caso, Kant fa costante riferimento alla Francia. La Costituzione del 1791 che impegnava la Francia, nata dalla Rivoluzione dell’89, a ripudiare la guerra di conquista e a non usare «mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo», e quella del 1793 – frutto della battaglia pacifista di Robespierre contro “il partito della guerra”, quello girondino – le imponeva di non ingerirsi nel governo delle altre nazioni.

Sullo sfondo si intravvede l’idea di una politica che porti al rilancio di organismi internazionali, che possano e sappiano rilanciare le vie diplomatiche per la risoluzione delle controversie internazionali e consentano di assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni. Si tratta di una visione affascinante, di tipo cosmopolita e nettamente progressista nella quale si mette a tema il processo che interessa la natura e l’uomo. Dunque, occorre passare dalla libertà selvaggia degli stati all’affermazione di un ideale cosmopolitico per un’umanità interamente pacificata come viene preconizzato nella filosofia antica e nell’ecumenismo cristiano, teso alla realizzazione del proprio contrario – appunto la pace – e quindi alla propria soppressione.

ARTICOLI DEFINITIVI PER LA PACE PERPETUA TRA GLI STATI

Analizzeremo sinteticamente quelli che Kant chiama i tre articoli definitivi, cominciando dall’esame della premessa che il Nostro fa precedere agli stessi. Scrive Kant: «Lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale (status naturalis), il quale è piuttosto uno stato di guerra, ossia anche se non sempre si ha uno scoppio delle ostilità, c’è però la loro costante minaccia. Esso deve dunque venire istituito; poiché l’assenza di ostilità non rappresenta alcuna garanzia di pace, e se questa garanzia non viene fornita a un vicino dall’altro (la qual cosa può avvenire solo in uno stato di legalità), il primo può trattare il secondo, a cui abbia richiesto questa garanzia, come un nemico» (I. Kant, Per la pace perpetua, p. 53).

Kant sostiene nel Primo articolo definitivo per la pace perpetua che In ogni stato la costituzione deve essere repubblicana. (I. Kant, Per la pace perpetua, p. 54). È un’affermazione di straordinaria portata se pensiamo che viene pronunciata alla fine del Settecento, quando la stragrande maggioranza dei Paesi erano monarchici (spesso assolutisti!); ma solo la costituzione repubblicana ha la prospettiva di “quell’esito desiderato, la pace perpetua”. Infatti, dove «il sovrano non è il concittadino, ma il proprietario dello Stato, e la guerra non toccherà minimamente i suoi banchetti e le sue battute di caccia, i suoi castelli in campagna, le sue feste di corte e così via, e può allora dichiarare la guerra come una specie di gara di piacere per futili motivi e, per rispetto delle forme, affidare con indifferenza al corpo diplomatico, sempre pronto a questa bisogna, il compito di giustificarla» (Kant, Per la pace perpetua, p. 56).

Il Secondo articolo definitivo per la pace perpetua recita Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati. (Kant, Per la pace perpetua, p. 59). In questo caso, Kant può dirsi il precursore degli organismi internazionali, come la Società delle nazioni e l’ONU, che nel Novecento e nel Terzo Millennio hanno tentato, faticosamente peraltro!, di garantire la pace tra gli Stati. Scrive « […] la ragione, dall’alto del trono del supremo potere che dà le leggi morali, condanna assolutamente la guerra come procedimento giuridico e fa invece dello stato di pace un dovere immediato, che però senza un patto reciproco tra gli Stati non può essere fondato o garantito: così deve necessariamente esserci una federazione di tipo particolare, che si può chiamare federazione di pace (foedus pacificum), che si differenzierebbe dal trattato di pace (pactum pacis) per il fatto che questo cerca di porre fine semplicemente a una guerra, quella invece a tutte le guerre per sempre» (Kant, Per la pace perpetua, p. 62).

Infine, nel Terzo articolo definitivo per la pace perpetua il Nostro autore propone che Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale, e non è chi non vede l’attualità di questa posizione in un mondo nel quale migrazioni di massa, milioni di profughi in fuga da Paesi in guerra, distruzioni provocate da conflitti decennali e tutto ciò che è foriero di violenta contrapposizione sembra non trovare soluzione proprio perché si è smarrita la strada che Kant, invece, vorrebbe che fosse imboccata. Non si tratta solo di un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi, ma, come sostiene il pensatore prussiano, di «un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini, il diritto di offrire la loro società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco all’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra». (Kant, Per la pace perpetua, p. 62).

In conclusione, a Kant, anche in polemica, seppure molto raffinata, con Platone, non sembra essenziale che i filosofi diventino governanti; importa, invece, che possano parlare pubblicamente affinché non risulti corrotta la libertà di giudizio della ragione. E questo è a tutt’e due, governanti e filosofi, indispensabile per illuminare le loro cose.

Questa relazione, rivista dall’autore, è stato esposta durante il Convegno CESP svoltosi a Catania il 25 ottobre 2022 P.S.: Il 26 ottobre 2022, dopo l’incontro/evento internazionale «Il grido della pace», organizzato dalla Comunità di sant’Egidio, il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron recatosi in visita da papa Francesco gli ha portato in dono una prima edizione in francese dell’opera «Per la pace perpetua» di Immanuel Kant.

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