Il dialetto del Verga arricchì la lingua nazionale, la rese interessante e poliedrica, ma l’unico problema che si presentò fu quando diventò espressione di una questione politica, quando si inserì nella più vasta questione di uno stato unitario e nel suo delinearsi a livello nazionale.
La lingua italiana, che aveva attinto a molte fonti anche straniere, iniziò ad acquisire nuove forze ed energie dai dialetti.
Verga rappresentava, attraverso le parole dialettali, il ritmo interiore di personaggi che da soli creavano la loro identità e si definivano nella loro realtà.
Dunque, il problema del dialetto per Verga non si limitò alla Sicilia e agli ambienti siciliani da lui descritti nelle opere maggiori. Esso si estese a una problematica che investiva le regioni e gli ambienti nei quali si muovevano, in ogni parte del mondo, personaggi poveri o borghesi o nobili, ma popolo come gruppo e non come individui singoli.
Si tratta di un ambiente che non si può delimitare geograficamente, ma che si caratterizza soprattutto in qualità di natura umana e corale, in cui il problema della lingua e dello stile risulta essere lo stesso problema della scoperta del vero e della vita vissuta da ogni uomo. Per questo motivo il dialetto serviva a creare la dialettalità come parte integrante della sua narrazione, per stabilire un clima dove il racconto doveva far vivere e sviluppare le esperienze umane.
Osservando questo metodo narrativo, Verga faceva sì che il siciliano servisse alla narrazione di ambiente siciliano, mentre il fiorentino alla narrazione di ambiente toscano. Proprio così, Verga diede vita al “ciclo dei romanzi fiorentini” di cui fanno parte: Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre reale ed Eros. Ma il discorso può anche essere esteso a tutta la poetica del romanzo verista, il quale crea
una ricostruzione della realtà così come si presenta agli occhi dello scrittore, allargando la prospettiva nel tempo, nello spazio e soprattutto nell’ambiente.
Affermare che Verga è un grande narratore solo quando descrive i personaggi siciliani non è corretto, poiché diventa grandioso anche nel descrivere la decadenza dei protagonisti fiorentini e lo fa riprendendo proprio il loro “dialetto”. Egli usava fiorentinismi fonetici, come la monottongazione di uo dopo palatale, e fiorentinismi morfosintattici come l’uso dell’articolo determinativo davanti ai nomi propri di persona: l’Annetta. Inoltre nelle forme verbali, sempre come fiorentinismo, troviamo il si con la terza persona singolare per la prima persona plurale. Per i pronomi utilizzava l’uso pleonastico di la: pare che la sia davvero una bella musica; e molti fiorentinismi lessicali: berta, babbo, seggiola, e moltissimi altri, dimostrando grande capacità nel distaccarsi dalla competenza dialettale nativa.
Quindi Verga utilizzava perfettamente i vari registri linguistici e sapeva bene che sfruttando siciliano e fiorentino avrebbe ottenuto un risultato prestigioso all’interno delle sue opere.
Infatti, lo dichiarò lui stesso in una lettera all’editore Treves il 4 settembre 1873:
Io leggo attentamente tutte le critiche e cerco di approfittarne degli appunti, ma in fatto di lingua, meno le imperfezioni che sono il primo a confessare, e che fò di tutto per isfuggire, son convinto di essere non del tutto fuori via […].
I giovani siciliani che si recavano a Firenze negli anni del Risorgimento trovavano un ambiente preparato ad accogliere anche le loro istanze linguistiche, poiché la questione del rapporto lingua-dialetto era stata molto discussa e affrontata.
Sul Mastro don Gesualdo il Verga scrisse al Capuana: <<Mi fa piacere che i critici non abbiano trovato da dire che sulla grammatica ché, se questa vuole essere un’accusa, è un’accusa che ci palleggiamo tutti da uno scrittore all’altro>> (19 agosto 1888).
Il disinteresse con cui lo scrittore percepiva il rilievo dei critici sulla grammatica conferma che la sua concezione linguistica non è inconsapevole o superficiale, ma al contrario corrisponde a uno scopo ben preciso che si contrappone al purismo ancora dominante e alla forte presenza del modello manzoniano. Non solo, ma il fatto che molti scrittori ricevevano la medesima accusa è il punto determinante della crisi linguistica che al tempo del Mastro don Gesualdo coinvolgeva i letterati del tempo, essendoci pure una consapevolezza che i dissensi non sarebbero bastati a modificare l’atteggiamento di alcuni intellettuali contrari al nuovo corso assunto dalla questione della lingua.
Peraltro in altre occasioni, Verga dimostrava poca stima del giudizio dei critici, <<ormai della critica italiana so che pensare>> scriveva il 21 novembre 1888, infatti lui in qualità di artista avvertiva non soltanto la complessità del cambiamento linguistico ma anche le esigenze del progresso culturale.
Il dialetto, dunque, serviva al Verga per dare il “colore locale” ai suoi racconti. Questa espressione, ripresa dalla Réflexion sur la tragédie di Benjamin Constant, ricorre spesso nell’epistolario dei veristi, riferendosi a una serie di ambientazioni e di sentimenti che dovevano trasformare la pagina in un insieme organico di suggestioni narrative.
Quando Verga parlava della sua prosa usava un linguaggio molto pittoresco,
dove la luce e i colori servivano a dare l’idea di una poetica fondata su una sorta di impressionismo narrativo. Anch’egli dunque parlava di “colore locale” come <<quadro…ambiente che mi ero proposto di colorire>> (al Capuana, 5 giugno 1885), di esperimenti compiuti sulla pagina <<l’ho voluto…con altra tinta e disegno>> (al Capuana, 4 aprile 1885). L’unione tra colore e sentimento la troviamo anche in un’altra lettera, indirizzata sempre allo stesso amico, scritta in dialetto siciliano: <<Lu coluri e lu sentimentu lucali? d’accordu ccu vui>>.
Dunque il segreto della lingua del Verga risiede nell’artificio del “colore locale”, affidato alla sensibilità dello scrittore. Verga si sottopose a un tirocinio linguistico tormentato e sofferto, ma approfittando della situazione linguistica italiana, e avvalendosi dell’esempio di Manzoni, creò una vera e propria rivoluzione letteraria.