1992: Una domenica d’estate, da un gelato ad una strage. il 19 luglio della mia famiglia

Articolo di Redazione

Di Francesca Agnello

Non è stato per niente facile essere stata la moglie di un fotoreporter che già dagli anni ottanta seguiva perlopiù le cronache di mafia. Tutta la mia vita e la vita di quello che è stata la famiglia che mettemmo su, è stata scandita da fatti che hanno segnato un’epoca. Con Franco ci conoscemmo a metà degli anni settanta, la seconda guerra di mafia non era ancora stata dichiarata dal clan dei corleonesi, che comunque già scalpitava per prendere il potere. Ci fidanzammo nel 1982. Era lo stesso anno in cui a settembre venne trucidato il Prefetto Dalla Chiesa assieme alla moglie e al suo agente di scorta. Già da allora dovetti avere a che fare con questi avvenimenti che sentivo vicini in quanto fidanzata del fotografo che li immortalava. Nel 1984 ci sposammo e tre mesi dopo venne ucciso ai “Cappuccini” Leonardo Vitale il primo pentito di mafia. Nel 1986 nacque il nostro primo figlio, Corrado, e nacque proprio il giorno successivo all’apertura del primo maxiprocesso alla mafia, l’11 febbraio.

Ovviamente mio marito non poté essere molto presente, la cronaca incalzava. E andava avanti così, per anni e anni. Ricordo angoscianti telefonate notturne al telefono fisso, non esistevano gli smarthphone e vi assicuro che la terribile sensazione di uno squillo in piena notte era devastante. Completamente diverso da un’attuale ed innocente notifica di WhatsApp. E dopo pochi secondi non avevo più un marito accanto a me nel lettone ma un vuoto angosciante. Dove sarà andato? chi avranno ammazzato? Tornerà a letto, passerà la notte in strada o – bene che vada – in studio a sviluppare pellicole? Poi arrivò il 1992, il tempo delle stragi. Maggio, giorno 23. Falcone, moglie e scorta massacrati a Capaci, e poi come un fulmine a ciel sereno venne quel maledetto 19 luglio. Via D’Amelio. Era una domenica come tutte le altre, Franco non era di turno, lo era il suo socio Michele Naccari. Ma era reperibile.

Aveva addosso il “Teledrin” un apparecchietto che emetteva dei “bip” che segnalavano il numero telefonico (fisso) di chi ti cercava. E quindi in reperibilità niente mare, niente gite fuori porta. Solo una passeggiata era consentita, e quella facemmo quel pomeriggio. Un gelato alla pineta in località San Martino, questo decidemmo di concederci. Corrado aveva solo sette anni e volevamo offrirgli un po’ di refrigerio in collina. Ma ai tornanti di Baida proprio il nostro bambino ci fece notare che una grande colonna di fumo si stagliava alta in cielo all’altezza dei cantieri navali. Franco fermò la nostra Seat Ibiza nuova e disse; “deve aver preso fuoco un deposito d’auto o di pneumatici, il fumo nero e denso è dovuto a questo”. Senza pensarci due volte girò il muso dell’automobile e tornò a razzo verso la città. Lo lasciai fare, non sarebbe servito a nulla farlo desistere. Gli dissi solamente “andiamo ma fai una cosa veloce, il bambino ha diritto al suo gelato”. Ma quando arrivammo in via Roma nuova (così i palermitani chiamavano la via Marchese di Villabianca) ci accorgemmo che il fatto era molto più grave del previsto. Troppe gazzelle dei carabinieri e pantere delle polizia. Troppe autobotti dei pompieri. E poi i vigili urbani e le fettucce rosse e bianche che transennavano tutto. Gente che correva, gente che urlava. Franco fermò l’auto e ci disse di non muoverci, pensò che poteva essere stato un attentato contro il magistrato Giuseppe Ayala, Lui lo sapeva che Ayala viveva al residence Marbella che era proprio li vicino.

Scese dalla macchina e corse a piedi verso via D’Amelio. Mi lasciò li con il bambino piccolo. Io ero curiosa però e con mio figlio per mano mi recai verso quel luogo. Ma dopo poche centinaia di metri un uomo mi disse “lasci stare signora, si allontani, torni indietro non è il caso, mi creda!” Ritornai in auto e dopo una buona mezz’ora Franco tornò. Era sconvolto, mi disse “Francesca sembra Beirut, sembra un attentato dell’ Ira a Belfast!”. “Hanno fatto saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Ci sono forse decine di morti. Stai in auto, chiamo Benvenuto Caminiti (un suo collega giornalista ndr.) che ho visto qui vicino e chiedo a lui di tenervi a sicuro”. Si dileguò e lo vidi correre di nuovo verso la fiamme di quel budello di strada che erano ancora alte. Dopo circa tre ore mio marito tornò e ci riaccompagnò a casa, doveva cambiare l’attrezzatura e cominciare a sviluppare le pellicole. In auto verso casa lunghi silenzi, rarissime parole e tanta rabbia. Non potevamo capacitarci del perché e come a così pochi giorni di distanza due magistrati di punta del pool antimafia potessero stati così facilmente eliminati dai mafiosi.

Sotto casa Franco mi disse “ci vediamo presto” ma io lo sapevo che sarebbero passati giorni. E i giorni passarono e senza il conforto di una chiamata, non aveva ancora il cellulare Franco, costavano troppo nel 1992. Andò come andò, e fra trasferta a Milano per piazzare le fotografie, tra funerali e tra manifestazioni rivedetti mio marito dopo circa cento ore. Era cambiato Franco, ero cambiata io. Era il tempo delle riflessioni, era il tempo della riscossa. E’ stato duro essere la moglie di un reporter d’assalto.

Dopo le stragi ci fu la rivalsa dello Stato contro i mafiosi e io mio marito lo vedevo sempre meno. Poco presente era con il primo figlio, quasi del tutto assente con il secondo, Ruggero. E’ stata dura, ma è stata la mia vita. Siamo pure arrivati alla separazione. Ma dopo anni abbiamo ritrovato il nostro equilibrio. Adesso anche se non viviamo più assieme sappiamo che doveva andare così e sia io che lui rifaremmo tutto quello che abbiamo fatto.

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