29 luglio 1983, “Palermo come Beirut”: la strage in cui perse la vita Rocco Chinnici

Articolo di Salvatore Scelfo

Sono trascorsi 38 anni dalla strage di via Pipitone: il 29 luglio 1983 a Palermo una Fiat 126 imbottita con 75 chili di esplosivo, parcheggiata davanti all’abitazione del consigliere istruttore Rocco Chinnici, esplode alle 8.05: perdono la vita il magistrato a capo dell’Ufficio di Palermo, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Nell’attentato, la prima autobomba utilizzata da Cosa nostra contro le Istituzioni, rimane gravemente ferito anche l’autista di Chinnici, Giovanni Paparcuri. Poche ore dopo la strage il giornale L’Ora titola “Palermo come Beirut”. L’attentato di via Pipitone è l’ultimo di una lunghissima serie di omicidi eccellenti, che dal 1979 in poi ha visto l’uccisione di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto dalla Chiesa.

Chinnici aveva preso il testimone di uno di loro, Cesare Terranova, alla Procura di Palermo. Fu tra i primi ad intuire dell’esistenza di un livello superiore del potere mafioso, il cd. “terzo livello”, che vedeva coinvolta anche la politica. E fu sempre Rocco Chinnici ad avere un’altra, decisiva, intuizione: l’istituzione a Palermo di un “pool” sulla falsariga del metodo di lavoro utilizzato nelle indagini contro il terrorismo. Un’idea ripresa poi da Antonino Caponnetto, che gli succederà dopo la strage di via Pipitone, e che si rivelerà fondamentale nell’istruzione del “maxiprocesso a Cosa nostra”. “Non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento” ricordava Paolo Borsellino. 

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