È da poco uscito nelle sale italiane il film 800 eroi, film di produzione cinese che racconta alcuni frangenti della battaglia di Shangai, combattutasi nel corso della seconda guerra sino-giapponese, e in particolare l’ultima resistenza di un corpo d’armata chiamato appunto gli 800, seppure in realtà il numero dei combattenti fosse inferiore.
Da anni uno dei cavalli di battaglia dell’industria cinematografica hollywoodiana sono stati i “war movies”, dove la spettacolarità delle scene e degli effetti speciali si mescola ad una buona dose di propaganda sull’eroicità dei soldati americani e sulla loro lotta per la libertà. Dalla Seconda Guerra Mondiale ai film sul Vietnam, senza dimenticare i film che raccontano le vicende più recenti delle guerre in Iraq ed Afghanistan. Adesso sembra che anche in Cina abbiano appreso la lezione di Hollywood e 800 eroi prova a seguire le orme delle produzioni americane. Anche qui non mancano gli effetti speciali e le coinvolgenti scene di guerra, seppure in alcuni punti la retorica di certi dialoghi e la tendenza a dover riempire di avvenimenti qualsiasi scena possono stancare lo spettatore.
L’obiettivo politico del film viene qui illustrato dalle didascalie che appaiono prima e dopo: in quelle finali si rileva con orgoglio il ruolo della Cina nella sconfitta giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale e si sottolinea come i due terzi delle perdite giapponesi nel conflitto siano state provocate proprio dai cinesi (ridimensionando quindi implicitamente il contributo americano).
L’altro elemento rilevante è anche il fatto che i soldati che prendono parte alla battaglia, nonostante il ripetersi della parola compagno, combattono nelle file dell’Esercito rivoluzionario nazionale e portano sugli elmetti il simbolo del Kuomintang. La bandiera che nella parte finale viene innalzata e difesa a costo della vita, con una scena che sembra il contraltare cinese della foto resa celebre in “Flag of our fathers”, è in realtà la bandiera della Repubblica di Cina, bandiera che adesso non è altro che la bandiera taiwanese. Si è detto che questi elementi non siano stati molto graditi alla censura cinese, ma io ritengo che potrebbe darsi anche una lettura diversa. I protagonisti del film parlano spesso di Cina, dell’importanza di risvegliare l’orgoglio dei cinesi e anche l’uso della bandiera che è oggi è quella taiwanese sembra riallacciarsi ad un’idea unificante della Cina, che nella visione attuale di Xi Jinping non può non comprendere l’isola di Taiwan. La retorica unificante è utile allo scopo di rappresentare una Cina unica e indivisibile, che richiamandosi anche alla storia della Repubblica di Cina e del Kuomintang ricomprenda anche l’isola di Taiwan. La Cina può in questo modo riappropriarsi anche della sua storia precedente al 1949 senza identificarsi esclusivamente con la storia del Partito Comunista Cinese.
Il film ha ottenuto un grande successo in patria e l’eventuale popolarità all’estero potrà mostrarci se l’industria cinematografica cinese abbia già le carte in regola per diventare un’importante arma di soft power. Ad ogni modo la strada è stata tracciata e il dragone sembra voler lanciare la sfida all’America anche sul suo terreno elettivo.