La Commedia di Dante, una galleria di specchi, di vite raccontate da Davide Pugnana

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321 Dante Alighieri muore a Ravenna. Nell’estate del 1321 il Sommo Poeta farebbe parte di una ambasciata inviata da Guido Novello a Venezia e, sembra, che durante il viaggio nelle paludose valli di Comacchio si ammali. Le forti febbri complicano la sua salute e molto probabilmente accelerano la sua morte. Ai funerali, celebrati con grandi onori, partecipano le massime autorità della città. La morte di Dante sconvolge tutto il mondo letterario e civile. Il contemporaneo Cino (cioè Guittoncino) da Pistoia, dell’alta famiglia pistoiese dei Sigibuldi o Sigisbuldi, in occasione della morte di Dante scrive la canzone Su per la costa, Amor, de l’alto monte nella quale piange e commemora l’arte e l’umanità dell’amico capace di indicare la retta via agli uomini in cammino e gli augura di essere accolto nel «grembo di Beatrice».

Già nel sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, nei modi del plazer provenzale, il giovane Dante dischiude ai lettori e alle lettrici la ricchezza dell’evasione, proietta, incantandoli e incantandoci, i desideri che vive. Nell’esile ballata Per una ghirlandetta, di gusto stilnovistico, vive una tenera e immaginifica musicalità che l’avvolge tutta. Con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore «comincia l’originalissimo dolcestilnovimo dantesco, fondato sulla trascendenza e angelicazione della donna, che si configura come “segno”, “figura” del divino» (G. Petronio). Ma è soprattutto la Commedia quel libro, quel tesoro di immagini, suoni, parole che nel tempo e attraverso il tempo è entrato in dialogo con le diverse forme d’arte (pittura, musica, cinema). Un dia-logo che si fa specchio delle immagini, dei suoni, delle parole della Commedia, un libro, un classico «che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (I. Calvino).

Preziosi e raffinati volumi offrono e mostrano l’«espansione» delle imagines agentes dantesche che da sempre incantano. La professoressa emerita di Letteratura italiana della Scuola Normale Superiore di Pisa Lina Bolzoni con La Commedia di Dante nello specchio delle immagini e la professoressa Lucia Battaglia Ricci con Dante per immagini offrono una singolare e acuta ricostruzione in prospettiva interdisciplinare dell’arte di tradurre in immagini visive la Commedia di Dante.

Nella Storia dell’Arte la Commedia – un classico dotato di una forte dimensione visiva (L. Bolzoni) – ha scritto e fecondato un ricchissimo mondo-specchio di immagini. La fortuna del poema dantesco nelle arti visive è davvero un modo sconfinato, sempre in continuo divenire. In questa «selva selvaggia», in questo «cammin», in «questo infinito di infiniti» (G. Bruno) siamo accompagnati da una guida d’arte, l’amico e collega Davide Pugnana, formatosi all’Università di Pisa con un percorso a metà tra Lettere moderne e Scienza dei beni culturali (https://davidepugnana.wordpress.com) che in quest’intervista-guida compirà alcuni possibili percorsi con la saggia e acuta consapevolezza che ogni punto sa irradiare, irraggiare in altre direzioni.

D.: La Commedia è un «cammin», una galleria di immagini, volti, suoni, rumori, notturni, atmosfere ecc. che svelano e rendono visibile quello che visibile non è. L’ineffabile «qualità» visiva della Commedia è testimoniata dai codici trecenteschi, Luca Signorelli, Michelangelo, Dorè, Füssli, John Flaxmann, William Blake, il tirolese Giuseppe Antonio Koch, Delacroix, Guttuso, Giacomelli, Mimmo Paladino, ecc. Una fortuna figurativa che fa da «cornice» all’Arte e che orienta i nostri sguardi e passi. Quali sono le «figure» che costituiscono un punto di riferimento ineludibile per gli artisti d’ogni tempo?

R: Come ben ricordavi tu, Dante ha un rapporto strettissimo con la arti figurative e stimola una continua schermaglia dialettica tra linguaggio visivo e sponda verbale, prima di tutto perché la visione di Dante si avvale di una “immaginazione visiva”, come la chiamava Eliot. Questo fa sì che le grandi figure del poema siano state tradotte figurativamente da innumerevoli artisti. Solo l’episodio di Paolo e Francesca conta infinite interpretazioni pittoriche, anche occasionalmente, magari con una sola opera in cui gli artisti hanno trasposto l’episodio dantesco più “gettonato”, appunto quello di Paolo e Francesca. È il caso di Jean-Auguste-Dominique Ingres, Ary Scheffer, Anselm Feuerbach, Felice Giani, Marie-Philippe Coupin de La Coupierie, Mosè Bianchi, Giuseppe Frascheri, Clemente Alberti, Domenico Purificato, Emilio Greco, Gigino Falconi, Alba Gonzales. Solo per dirne alcuni. Altro artista, come Dorè e Flaxman si sono spinti a raffigurare l’indicibile, ossia gli scenari rarefatti della cantina del Paradiso. Allo stesso modo vanno ricordate le precoci miniature, inserite in codici che illustrano la Divina Commedia, a volte contenendo anche ritratti di Dante. Lo spettro iconografico è, quindi, molto ampio. Lo stesso episodio di Farinata (Inf, X) stimola fortemente la traduzione scultorea della memorabile figura del capo ghibellino. Voglio ricordare, in questo senso, il lavoro di Laura Pasquini. Laura Pasquini, studiosa della produzione artistica tardoantica e medievale, nel suo recente saggio «Pigliare occhi, per aver la mente». Dante, la Commedia e le arti figurative (Carocci Editore, 2020), a partire dalla convinzione del ruolo significativo avuto dalle arti figurative nella costruzione dell’immaginario dantesco, ricostruisce filologicamente l’iconografia da cui il poeta può aver ricavato suggestioni nell’elaborare la sua opera. Si tratta di ricostruire l’occhio di Dante e l’idea che l’immaginario figurativo dantesco abbia potuto avvalersi di un importante repertorio di immagini che il poeta ha avuto modo di osservare direttamente nei luoghi di culto, negli edifici pubblici e nei manoscritti. Si tratta di un repertorio iconografico sedimentatosi a partire dall’XI secolo volto a testimoniare e rafforzare timori e paure per la fine dei tempi, a mettere in guardia sulle conseguenze del peccato, a raccontare di salvezza e dannazione e a denunciare ingiustizie sulle mura dei palazzi pubblici. Un repertorio di mostri e pestilenze, di santi e dannati, di exempla fortitudinis e di figurazioni maiestatiche strutturanti l’immaginario del cittadino medievale. In tal modo, le figure poetiche proposte da Dante lungo il tragitto di conoscenza e crescita interiore che attraversa i tre regni ultraterreni hanno la medesima funzione attribuita alle opere figurative che la studiosa individua come esempi su cui il poeta ha costruito il suo ricco e stratificato orizzonte figurativo, la sua biblioteca interiore, da cui può, più o meno consapevolmente, aver tratto ispirazione. È un ottimo punto di partenza per riflettere sulla visualizzazione delle figure di Dante in chiave figurativa.

D.: La Commedia feconda, anche, le moderne tecnologie e arti, ad es., il fumetto. Quale dialogo visivo è possibile con le nuove e diverse forme dell’arte contemporanea? Tra i diversi livelli di significato del poema (letterale, allegorico, anagogico, morale) quale reinterpretano al meglio?

R: Dante non conosce sosta rispetto al dialogo con le arti visive, anche nel loro linguaggio più sperimentalmente contemporaneo, come l’arte digitale, o le installazioni. Penso che se l’artista contemporaneo ha una propria visione e un proprio stile potente, il suo mezzo espressivo si adatti al meglio nella restituzione intersemiotica dei livelli del poema. Ad esempio, nel 2020, a Palazzo Firenze, si è tenuta la mostra “Verso il 2021. Dante nell’arte contemporanea italiana”, con il Patrocinio del Ministero della Cultura. Si trattava di quindici artisti, esponenti della Transavanguardia, della Scuola di San Lorenzo, dell’Anacronismo e dell’Ipermanierismo: Omar Galliani, Ivan Theimer, Bruno Ceccobelli, Mimmo Paladino, Giuseppe Gallo, Enzo Cucchi, Piero Pizzi Cannella, Stefano Di Stasio, Marco Tirelli, Sandro Chia, Gianni Dessì, Nunzio Di Stefano, Emilio Isgrò, Giuseppe Stampone, e Roberto Barni. Perfino la danza è entrata a “leggere” alcuni episodi danteschi, tra i quali il tema dello svenimento di Dante nel corso del suo viaggio e del suo corpo che precipita a terra, nel tentativo di rendere un malessere interiore che si riversa ancora nel fisico e nella gestualità connessa al sentimento legato a determinate situazioni. Così sul versante del fumetto. La catabasi agli Inferi e l’ascesa di Dante verso il Paradiso hanno scatenato la fantasia di tante matite e colori che hanno visto nel Sommo Poeta un’icona adatta a tutti i tempi. Lo troviamo così nel “Viaggio all’Inferno” di Topolino o ne “La rovina in Commedia” di Benito Jacovitti, fino ai nostri giorni nella pagina di satira Facebook “Feudalesimo & Libertà”, solo per citare alcuni esempi. Alla fine l’umanità di Dante, la sua curiosità, la sua pietas e il suo bisogno della ragione, incarnata da Virgilio, per affrontare le paure, sono da sempre stati la chiave per catturare l’empatia di generazioni di lettori. “I fumetti a caratterizzazione dantesca – spiega lo studioso Stefano Jossa – immettono l’orizzonte della letteratura, ancora in gran parte dotato di prestigio nelle società occidentali, in una prospettiva di massa che impone trasformazioni e adattamenti dell’immaginario collettivo al fine di reinterpretare tanto la tradizione quanto la contemporaneità.”

D.: L’Arte dà corpo – o un corpo- ai desideri, alle paure, alle angosce, ai drammi tessuti dal poema dantesco. Quali sono quelli che potrebbero indicarci la via di un cammino, di un risveglio, di una rinascita in questo nostro difficile tempo presente?

R: La lezione di Dante non smette di irrorare di linfe nuove ogni generazione di lettori e di ficcarsi nell’immaginario poroso di molti artisti visivi. Lo spiega bene Marco Grimaldi, autore del libro “Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia”, edito da Castelvecchi. Grimaldi afferma: “Leggiamo ancora la Commedia prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta. Perché Dante ha creato un mondo fantastico ma del tutto verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo per il suo realismo: perché nella letteratura in volgare prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano sempre standardizzare, sempre uguali. Spesso erano molto efficaci, certo, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che è un uomo coltissimo, un intellettuale che conosce tanta letteratura, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo terreno, come è stato chiamato. E tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. Queste sono le ragioni – importantissime – che si spiegano a scuola e all’università.” È qui il nocciolo profondo della longevità di Dante come linfa vitale per gli artisti di ogni generazione. Non dimentichiamo che Dante è anche categorico nella lettera inviata a Cangrande della Scala insieme al Paradiso. Il fine della Commedia è quello di «Removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (Lettera a Cangrande della Scala) cioè quello di rimuovere noi viventi, finché siamo in vita, dalla condizione di miseria, di peccato, di tristezza, e di accompagnarci alla felicità e alla beatitudine. Questo messaggio può essere anche interpretato come vitalità di stimoli, eredità umanistica che mai conoscerà tramonto. E questo perché Dante, attraverso la configurazione visionaria dei tre regni oltremondani, parla di noi, come già intuiva Auerbach, nel senso che, nonostante il poema dantesco sia un’opera che racconta un viaggio nell’aldilà, in ogni verso il Sommo poeta ci rivela l’al di qua, l’uomo e la vita di tutti i giorni con la potenza e la capacità di comunicazione che gli sono proprie. Voglio proprio concludere su Erich Auerbach. Fa bene tornare a leggere gli studi che Erich Auerbach dedica a Dante. E non solo perché sono un capolavoro storiografico e interpretativo. C’è anche un fatto minimo, una mania: ogni rilettura coincide con la scelta di piccoli o lunghi brani: distillati campioni di testo ai quali preferibilmente si torna, con fedeltà, una due tre dieci volte all’anno, fino a formare una piccola antologia privata. Negli anni, di quelle bellissime pagine aurbachiane torna sempre a colpirmi il tema dell’assoluta e quasi fisica aderenza della poesia dantesca alla materia del canto, tratto già presente nelle riflessioni degli antichi commentatori. Auerbach fissa mirabilmente questa costante tensione espressiva nella definizione di Dante “poeta del mondo terreno”. Come dire: Aldilà matericamente terreno quello della Commedia dantesca: “immagine del mondo terreno: con tutta la sua ampiezza e la sua profondità […] completo, non falsato e ordinato definitivamente; la confusione del suo corso non è taciuta e nemmeno mitigata, o privata della sua qualità sensibili, ma mantenuta in piena evidenza e fondata su un piano che lo comprende e lo libera da ogni apparenza casuale”. Per Auerbach, la rappresentazione dantesca, la sua inaudita mimesis, è realismo risolto in un nodo inestricabile di dottrina e fantasia, storia e mito. Il naturalismo di Dante è nuovo marchio di fabbrica. Scrive ancora Auerbach: “l’immediatezza con cui egli solleva nell’aldilà qualsiasi uomo dalla folla dei vivi, per interpretarvi la sua realtà e la sua essenza, come se fosse tanto celebre quanto una figura mitica, o almeno storicamente fissata, di cui tutti sanno cosa significa, questa immediatezza sembra essere stata ignota prima di lui.” Ed eccoci arrivati alle pagine memorabili sulla funzione della “similitudine” dantesca: dispositivo retorico capace di portarci nel corpo vivo del realismo dantesco. Dante è poeta che tende alla chiarezza; vuole che la limpidità concettuale sia ottenuta dalla massima politezza formale. Fissa episodi, voci, figure con poche linee, di estrema esattezza; ma se ciò non basta allora diventa analitico e compie un giro più largo. L’ampiezza argomentativa non complica il dettato, ma lo solleva a estrema chiarificazione. Su questo ideale di poetica si costruiscono le similitudini dantesche, sulle quali il lettore è portato a riflettere, rallentando la lettura. Tra l’immagine del naufrago che affannato si volge indietro a scrutare il pelago minaccioso e il perdersi nella vista di Dio, si apre l’infinita ricchezza delle similitudini che hanno la funzione di incarnare fatti e sentimenti: “ animali e uomini, destini e miti, idilli, azioni di guerra, paesaggi, descrizioni naturalistiche tratte dalla strada, il più generico avvenimento periodico che sia legato alla stagione o al mestiere, il ricordo più personale, tutto vi è contenuto; le rane gracidanti alla sera, un ramarro che sfreccia attraverso la via, le pecore che si spingono fuori dal chiuso, una vespa che ritrae il pungiglione, un cane che si gratta, pesci, falchi, colombe, cicogne; un improvviso turbine che sradica gli alberi, il paesaggio di una mattina di primavera, quando è caduta la brina, il cadere della sera al primo giorno di un viaggio per mare, un monaco che ascolta la confessione di un omicida, una madre che salva il figlio dal fuoco, un cavaliere che balza solo avanti agli altri, il contadino sbalordito a Roma”. Questa vertiginosa lista di Auerbach rubrica l’apertura a ventaglio delle similitudini presenti nelle tre cantiche e mette l’accento sulla loro cifra espressiva: esse non devono decorare o scorrere parallele alla narrazione in versi; devono chiarire. Le similitudini dantesche sono cavate da concreti lembi di realtà e a questa tessitura devono ricondurre. Il “fatto” deve rivivere, incorporato, nel “dir”: è l’impalcatura portante dell’idea e della funzione poetica in Dante. E dulcis in fundo, questo passaggio memorabile che dice come l’esegesi dantesca sia un moto di approssimazione faticoso, ma anche gioioso approdo interpretativo: “spesso un verso [di Dante] richiede forza e tempo quasi impossibili prima di schiudere qualcosa di quello che vi è contenuto; ma quando si è riusciti ad avere una visione d’insieme, allora i cento canti, nello splendore delle terzine, nel loro sempre rinnovato intrecciarsi e sciogliersi, svelano la leggerezza di sogno e l’inattingibilità della perfezione, che sembra librarsi senza fatica, come una danza di figure ultraterrene”.

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