Della letteratura italiana fa parte una sezione molto importante e significativa che va sotto il nome di “Letteratura della Sardegna”, di cui gli scrittori e le scrittrici inquadrano nei testi la bellezza dei paesaggi naturali di questa grande isola adagiata nel Mediterraneo occidentale e descrivono meravigliosamente il patrimonio di conoscenze di quei luoghi suggestivi: le tradizioni, le superstizioni, il folclore popolare, le abitudini, le problematiche, il progresso inarrestabile che invade centinaia di anni di immobilità culturale. Tra gli illustri nomi di tale letteratura spicca quello di una donna vissuta a cavallo tra due secoli – l’Ottocento e il Novecento – Grazia Deledda, prima donna italiana a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1926 attirando su di sé l’avversione di altri intellettuali maschi dell’epoca come Luigi Pirandello che, sì, avrebbe vinto il Nobel letterario più tardi, ma ora esso era stato dato a una donna che non conosceva, né scriveva bene in italiano.
La scrittura di Grazia Deledda è un fenomeno letterario veramente molto articolato tanto che gli studiosi fanno tuttora fatica a collocarla, se vogliamo, dentro una specifica corrente letteraria. La scrittrice sarda, infatti, si è mossa, secondo alcuni biografi e letterati, nelle vie del Verismo per le bellissime descrizioni della vita di umili protagonisti e protagoniste così come apparivano nella realtà, ma si può anche dire che la Deledda non è proprio lontana dal Decadentismo perché i suoi personaggi attraversano sempre una crisi esistenziale. D’altro canto per altri critici letterari – come Natalino Sapegno – le opere della Deledda hanno un sapore tutt’altro che verista perché da esse emergono prepotentemente caratteristiche liriche e perché ciò che la nuorese scrive non è affatto distaccato dai suoi sentimenti, dalle sue sensazioni, manca pertanto l’impersonalità. Quello che è certamente vero è che la Deledda ha preso ispirazione dai luoghi che gli hanno dato i natali, quei posti che ha vissuto con emozione da bambina, da ragazzina e da donna adulta che caratterizzavano la Sardegna di fine Ottocento, dove prepotente era il concetto di onore che andava preservato a ogni costo soprattutto se si era nobili. Nei suoi testi le tematiche si ripetono: il bene e il male; la vita e la morte; il dolore e la gioia; il peccato e il senso di colpa; l’amore, la passione e l’onore; la fede in Dio misericordioso.
La scrittrice e traduttrice sarda, Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, nacque in Sardegna, a Nuoro, dieci anni dopo l’Unità d’Italia, il 28 settembre del 1871. Venne al mondo e crebbe in un tempo profondamente insensibile al progresso dove le donne nascevano destinate a diventare solo e semplicemente mogli e madri, nonché massaie senza voci in capitolo che, dedite a Dio, dovevano silenziosamente accettare, in caso ci fossero stati, ogni sopruso e violenza da parte degli uomini della famiglia: prima dai padri, poi dai fratelli, dai meriti e, una volta cresciuti, perfino dai figli maschi, ma la Deledda ascoltò sempre quella voce assordante dentro di sé che le diceva continuamente di scrivere, scrivere e scrivere: “Sono nata in Sardegna. La mia famiglia è composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi. Aveva autorità e aveva anche biblioteca, ma, quando cominciai a scrivere a 13 anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti. Se lo trovi nella poesia una seconda volta, puniscilo ancora.
Se fa per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta. Senza vantarmi, anche a me è capitato così… Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio” furono queste le parole che Grazia Deledda pronunciò in occasione del Nobel. Intono ai 17 anni inviò alla redazione della rivista “L’ultima moda” due racconti che sancirono l’inizio della sua straordinaria carriera di scrittrice: “Sangue sardo” e “Remigia Helder”. A questi due racconti ne seguirono immediatamente altri che trovarono l’approvazione e la critica positiva di alcuni letterati e intellettuali dell’epoca, tra cui il napoletano Ruggiero Bonghi – primo presidente della Società Dante Alighieri, che nasceva in quegli anni – Giovanni Verga e Luigi Capuana – capostipite del Verismo – che recensì “La via del male”, romanzo del 1896 che parla di Pietro, protagonista indiscusso, il quale lotta contro un crudele destino che, prima, lo porterà ad essere incarcerato ingiustamente e poi a scegliere, per l’appunto, la strada del male facendo uccidere il marito della donna che più tardi sposerà. Grazia Deledda si unirà in matrimonio nel 1899 con un funzionario del Ministero delle Finanze e, mentre i due crebbero a Roma i due figli che misero al mondo, lei continuava a pubblicare una serie di racconti, ma solo uno decretò la sua fama di autrice: “Elias Portolu” che venne pubblicato una prima volta nel 1900 e poi venne ripubblicato in volumi tre anni dopo. Nel testo è palese la grandissima passione della Deledda per la scrittura russa, principalmente Dostoevskij e Tolstoi. Il romanzo racconta la storia di un uomo, Elias, che dopo aver scontato la sua pena in carcere, si innamora di sua cognata con la quale avrà una relazione carnale tanto che lei resterà incinta, quindi Elias decide di farsi prete. I fatti si muovono nel sardo territorio montuoso della Barbagia, citata perfino dal Sommo Poeta nel XXIII Canto del Purgatorio (vv. 94-96): “ché la Barbagia di Sardigna assai, ne le femmine sue più è pudica, che la Barbagia dov’ io la lasciai”, con i quali Dante voleva dire che le donne osservavano comportamenti assai pudici nella Barbagia sarda, nonostante essa fosse molto più socialmente arretrata di Firenze, vera primitiva Barbagia.
Di tutte le sue straordinarie opere letterarie la più famosa, il capolavoro, è senza alcun dubbio “Canne al vento” (1913) – tradotta sin dal principio in inglese da uno dei poeti e scrittori stimatori della Deledda: David Herbert Richards Lawrence – in cui i personaggi, che poi sono lo specchio delle realtà sarda, sono come delle canne radicate nel terreno, ma che vengono smosse dal vento che simboleggia il destino, il quale porta queste persone a vivere una vita, a volte, non voluta, non immaginata, non scelta, quindi traumatizzante. La trama si muove evidentemente in Sardegna – a Galtellì, in provincia di Nuoro – dove la tradizione rigetta totalmente il progresso e dove i personaggi sono fedeli, diremmo, all’ideale dell’ostrica, ma alcuni di essi, le menti più aperte – Lia, nel romanzo – scappano dal luogo di nascita per emanciparsi e, così facendo, sviluppano una serie di cambiamenti radicali di vita. Canne al vento, d’altra parte, fa da eco alla filosofia di stampo francese: l’essere umano, seppure creatura intelligentissima, viene paragonato, per l’appunto, a una gracile canna esposta ai fenomeni della natura, anche un vento o una pioggia, dinnanzi ai quali è evidentemente un essere indifeso. Le canne, dunque, simboleggiano la fragilità dell’essere umano in quanto creatura che fa i conti con sé stessa, con i propri sbagli e che tiene conto della propria coscienza, assumendosi le responsabilità del caso. L’uomo è un essere sensibile!
Grazia Deledda morirà dieci anni dopo il Nobel per un tumore al seno e i suoi resti riposano nella piccolissima chiesa della Madonna della Solitudine a Nuoro. Una delle sue ultime opere porta proprio il medesimo titolo “La chiesa della Solitudine”, in cui v’è il racconto di una donna sarda, Maria Concezione, operata di tumore al seno, alla quale piace pregare assolta nella piccolissima chiesetta. Al muro della sua casa natale in Nuoro una lapide recita: “Nata in questa umile casa Grazia Deledda vi schiuse lo spirito alla forte poesia della sua isola, facendo della passione di Sardegna l’anima della propria arte che è gloria italiana nel mondo”. Dal 1985 sul pianeta Venere c’è un cratere da impatto di 32 km che porta il suo nome: Cratere Deledda