È un bel regalo che Antonio Crisci riproponga il racconto L’uomo di ghiaccio, seconda edizione, per i tipi di Guido Miano Editore. Nell’introduzione, Michele Miano giustamente richiama Centomila gavette di ghiaccio (1963) di Giulio Bedeschi (1915-1990); ma si possono fare anche altri accostamenti a cronache e racconti “di guerra”, più o meno noti al grande pubblico. In questo filone si colloca a pieno diritto il lungo racconto di Antonio Crisci, che è molto coinvolgente, anche se non ha (e non potrebbe avere, dato che l’Autore riferisce vicende vissute da altri, non da lui personalmente) l’immediatezza della vena contestatrice e corrosiva del romanzo/cronaca (però riferito alla I guerra mondiale) Un anno sull’altopiano (1937) di Emilio Lussu (1890-1975), né l’ampiezza descrittiva e la capacità di intravvedere, pur nelle più tremende vicende belliche (della II guerra, in questo caso), la forza rinnovatrice della fede che troviamo nel racconto-cronaca di Eugenio Corti (1921-2014) I più non ritornano (1947 – uno dei primi resoconti diretti scritto da un reduce dalla campagna di Russia, di poco preceduto da Con l’armata italiana in Russia di Giusto Tolloy, del 1946, e contemporaneo all’uscita di Mai tardi di Nuto Revelli). Il Corti avrebbe ripreso l’argomento ne Il cavallo rosso (1983), e va ricordato anche il suo epistolario, uscito postumo, Io ritornerò (2015), impreziosito da fotografie scattate dall’autore stesso al tempo della ritirata dell’Armir tra la fine del 1942 ed il 1943.
Nel racconto del Crisci non vi sono invettive contro l’insensatezza della guerra, né si indugia sulle vicende della ritirata dell’Armir dalla Russia (circa 100 mila uomini, la stragrande maggioranza mai tornata), ma si segue il filo conduttore della ricerca dei circa 600 soldati e degli ufficiali italiani rimasti vivi pur dopo la loro deportazione nei famigerati gulag. Non pochi di loro decisero di restare in Russia, venendo in qualche modo dimenticati due volte. Se nel racconto c’è una nota polemica, è per stigmatizzare l’atteggiamento remissivo del PCI nei confronti dell’allora Unione sovietica: con meno pavidità, se il PCI avesse “spinto” tale ricerca, si sarebbero potuti certamente ritrovare molti dispersi, morti o ancora vivi, che invece rimasero quasi tutti tali.
Il racconto esordisce così: “Dopo troppi anni di oblio sarebbe doveroso dedicare un giorno alla memoria di questi innocenti e giovani martiri. Il tempo non ha cancellato l’ardimento e il sacrificio di giovani vite immolatesi per cause a loro non completamente note ma dettate dal senso del dovere e da ideali patriottici” (p.17). Si sviluppa in seguito con la narrazione di un intreccio di incontri più o meno casuali, come quello con la russa Natasha, e di personaggi che offrono spunti per allineare le vicende della ritirata di Russia, dei reduci e dei sopravvissuti fermatisi là. Infatti l’Autore riporta i racconti da lui uditi da parte di reduci della ritirata, come “zio Pasquale”, che nel salone del barbiere del paese racconta delle “marce del davai” (significa “va’ avanti”: i soldati russi lo ripetevano ai prigionieri italiani per farli camminare senza fermarsi – perché chi si fermava era perduto, o veniva giustiziato sul posto o veniva abbandonato e moriva di freddo); e racconta delle spie italiane che, in quanto comunisti convinti (o da se stessi o forse dai soldati sovietici), facevano da spalla ai “vincitori”.
Si inserisce qui la vicenda dei gemelli Aniello ed Alfonso, passati direttamente al fronte russo da quello albanese e greco, dove erano stati col fratello maggiore Vincenzo, tornato ferito in Italia. Aniello morì in Russia, mentre Alfonso (attorno al quale gira poi tutto il racconto) fu salvato da una famiglia russa nel gennaio 1943: un “miracolato”, perché – come nota l’autore – “La guerra con la sua ferocia rende duri anche gli animi inclini alla pietà” (p.65). Quasi incredibilmente, la storia di Alfonso si collega a Natasha, e ad altri ancora, come “zio Raffaele” e Ciro, in una linea temporale che giunge ai giorni nostri, attraversando vicende epocali come la caduta del muro di Berlino del novembre 1989.
Il tutto è reso con semplicità, il che rende avvincente la lettura di questa storia, vera ma anche romanzesca oltre che istruttiva.