“La mente e i luoghi”, il libro di narrativa di Enzo Concardi

Articolo di Redazione

Non è agevole sintetizzare contenuti e significati del libro di Enzo Concardi, tante sono le suggestioni che derivano dalla lettura. Già il titolo con il suo binomio (“la mente e i luoghi”) sembra aprire interconnessioni fra un lembo di spazio terrestre ben delimitato, potremmo definirlo “geografico”, e un lembo di spazio antropico, apparentemente ancora più ridotto, ma di immensa potenzialità, che potremmo definire “psicologico”. Il sottotitolo riesce a ridurre questa sensazione di spaesamento, racchiudendo quello spazio geografico in un contesto più specificato (“montagne”), che interagisce con le modalità di fruizione di quello stesso spazio (“viaggi”) e con le tipologie di definizione delle sue valenze (“avventure”).

In realtà il filo conduttore che fa dei numerosissimi frammenti che compongono il libro un universo compiuto, va ricercato con passione e tenacia e solo con più di una lettura ci si accorge che ogni frammento, ogni pensiero, ogni tessera, vanno a integrarsi in un mosaico completo. Già i quattro capitoli che lo compongono, con i loro titoli accattivanti, ma in qualche misura sfuggenti ed evocativi (Messaggi in bottiglia, Dimensioni altre, Arpe fatate, Per le vie del mondo) suggeriscono un insieme di tematiche armonizzate fra di loro che guidano a poche linee portanti, dove la montagna direttamente o indirettamente gioca il ruolo di protagonista. È una montagna certamente viva e palpitante, una presenza discreta o ingombrante, vissuta in prima persona attraverso un alpinismo e un escursionismo (perché chiamarlo trekking, come è moda ormai diffusa?) di alto livello; è una montagna dove il lirismo talora onirico delle sempre arricchenti citazioni letterarie, che scaturiscono da un umanesimo profondo e che si stempera nelle emozioni di albe, tramonti, contrapposizioni cromatiche, si alterna al realismo del rapporto uomo-montagna; è un rapporto che ha sostituito, almeno sulle Alpi, la secolare spaventosa fatica della sopravvivenza con l’attuale drammaticamente dilagante, per ripetere le parole dell’Autore, “omologazione consumistica”.

La varietà delle esperienze dirette dell’autore, i riferimenti autobiografici (che si tratti di una camminata solitaria in Valsesia, un’ascensione sulle Ande Peruviane, un’escursione invernale con gli amici del CAI, la scalata del Monte Bianco o un incontro con un pastore della Valle Cervo), le riflessioni sull’essenza dell’alpinismo e sulla sua evoluzione (o involuzione? l’alpinista: uno che ascende ricercando o uno che evade fuggendo?), tutto concorre a creare un quadro unificante della montagna, che diventa e si porge come metafora della vita e delle sue stagioni, nonché dei suoi sistematici dubbi e problemi. Forse ciò che più resta di arricchente dalla lettura del libro sono però gli interrogativi non sempre evidenziati che ne scaturiscono e che riguardano gli eterni dilemmi sui rapporti fra uomo e natura e fra uomo e uomo.

In particolare la domanda lacerante espressa o taciuta nei vari capitoli è sempre la stessa, la domanda che molti appassionati di montagna si pongono costantemente ad ogni uscita e ad ogni ritorno: è questa la montagna che vogliamo? La montagna ridotta ad una affollatissima elegante periferia urbana, dove l’inquinamento raggiunge e spesso supera per qualche settimana i livelli della città e dove l’unica differenza è data dall’incombere delle cime che circondano l’abitato, una montagna dove la presenza antropica autoctona debba limitarsi alla musealizzazione di baite ridenti e prati fioriti, senza tuttavia il puzzo del letame. Il tutto spesso in acuto contrasto con valli vicine dove regna un silenzio desolato derivante dall’abbandono e dallo spopolamento. È questo l’alpinismo che vogliamo? Un alpinismo (usiamo questo termine nel suo senso più ampio e onnicomprensivo) gestito dalla deificazione della velocità, dal tecnicismo esasperato e dalla spettacolarizzazione portata all’estremo? Da qui il dubbio che spesso pervade chi ha dedicato una parte a volte preponderante della propria vita a guidare quante più persone possibile lungo i sentieri, verso le cime, nella convinzione (errata?) che la semplice frequentazione della montagna portasse ad una sorta di autoeducazione e che l’incremento numerico dei frequentatori significasse automaticamente una crescita della conoscenza e della conseguente conservazione dell’ambiente montano.

È dunque mancata la capacità educativa da parte di chi per scelta o per appartenenza associativa ha contribuito alla divulgazione del fascino della montagna? Sarebbe stato più appagante non calarsi nel ruolo di apostoli delle cime e mantenere la montagna il più possibile solitaria e “aristocratica”, montagna per pochi e non per tutti? Una Montagna quindi che diventa specchio e guida di una interiorità, che diventa arricchimento, che diventa filosofia di vita?

Rileggendo queste frasi sorge spontanea una considerazione, che acuisce ancora di più gli interrogativi sopra proposti: sono forse queste le parole e le riflessioni di chi per età anagrafica non è più in sintonia con i sempre più veloci ritmi evolutivi di ciò che gli sta intorno? Tutto questo acuisce il dilemma e porta ad altri pressanti interrogativi: chi è titolato a farsi garante della scelta e della decisione su quale sia la montagna “migliore”, dove si smorzino le contrapposizioni e le contraddizioni fra benessere e povertà, valorizzazione e sfruttamento? Il cittadino o il montanaro? L’alpinista o lo sciatore? L’ambientalista o il banchiere o il giornalista o l’influencer? Solitamente si risponde a questi interrogativi sottolineando la necessità di un non meglio definito “equilibrio” fra conservazione dell’ambiente e sviluppo economico, tutto nel nome di una “sostenibilità” altrettanto indefinita. I risultati finora raggiunti nel concretizzare questo “equilibrio”, non solo in ambito montano e non solo in età preCovid, non lasciano molto spazio all’ottimismo, non rendono molto fiduciosi che l’homo sapiens (quanto appare poco adatta questa aggettivazione!) riesca in breve ad invertire le tendenze di questo periodo geologico che ormai unanimemente viene definito Antropocene. Da questa sorta di “pessimismo cosmico” dove “si annega” il pensiero, l’Autore sembra tuttavia ricavare barlumi di luce e schegge di speranza che proprio dalla Montagna prendono vigore, nella consapevolezza che “oggi più che mai abbiamo bisogno di metamorfosi e rinascite per credere ancora nell’uomo e nella civiltà”. Consapevolezza che ci sentiamo di condividere pienamente.

Enzo Concardi (Zibido San Giacomo, Milano, 1949) da sempre amante della natura e della montagna ha svolto attività alpinistica, escursionistica e fondistica su Alpi ed Appennini, privilegiando un approccio emotivo, scientifico, umanistico e poetico. È stato tra i fondatori della Sezione di Corsico del Club Alpino Italiano, nella quale ha rivestito il ruolo di Presidente per venticinque anni. All’estero ha partecipato a spedizioni e trekking nelle Ande (Perù e Bolivia), in Islanda, Marocco, Pirenei ed altri Paesi d’Europa. Professionalmente ha lavorato come Educatore Specializzato in un grande Istituto per Disabili del milanese. In campo culturale ha insegnato Lettere in una scuola privata serale ed ha pubblicato raccolte poetiche con la Casa Editrice Guido Miano di Milano: Carovane di sabbia (1981), Sentinelle del nulla (1984), Foglie e clessidre (1989), Strade (1999), Cristalli (2011), Chiara fontana (2017), Naif (2019). Si occupa anche di critica letteraria.

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