Continua la tradizione editoriale de I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno con le uscite di poesia internazionale: arriva tradotto e a cura di Paolo Galvagni I versi migliori si sciolgono nell’aria di Stanislav Bel’skij
“La tremenda guerra, dispiegata dalla Russia in Ucraina, ha una vittima poco notata. Proprio adesso cessa di esistere la poesia russofona di Ucraina. Gli autori, che nell’ultimo decennio l’hanno trasformata in un fenomeno unico, particolare – lo spazio del dialogo tra due tradizioni nazionali ricche ed eterogenee – uno dopo l’altro passano alla lingua ucraina, ammettendo che il dialogo non è riuscito. Ma se questo dialogo è destinato a svuotarsi, Stanislav Bel’skij probabilmente sarà colui che lo lascerà per ultimo e chiuderà dietro di sé la porta. In parte ciò è dovuto al fatto che proprio Bel’skij è stato il più attivo in Ucraina a tradurre in russo i poeti contemporanei ucraini, e anche oggi sulla sua pagina Facebook i più recenti versi militari dei leader della poesia ucraina appaiono in lingua russa alcune ore dopo la pubblicazione degli originali. Ma non si tratta solo di questo. Uno dei progetti poetici più interessanti di Bel’skij è un interminabile ciclo poetico, di cui di tanto in tanto pubblica nuovi testi – si intitola “Conversazioni amichevoli coi robot”. Il titolo non è del tutto esatto: nei versi di questo ciclo non l’autore o l’eroe lirico conversano coi robot – no, i robot e le reti neurologiche parlano l’uno con l’altro, si scrivono lettere, non nascondono le emozioni. Il dialogo è possibile. Il dialogo di per sé è un valore, anche se non c’è nessuno che lo condurrà, né nessuno con cui condurlo. La poesia di Bel’skij degli anni ‘10 – quella prima della guerra e quella dell’epoca della “piccola guerra” dopo il 2014 – è tutta costruita su simili paradossi. È il surrealismo e l’assurdo, ma domestico, comodo. Il mondo è impazzito, ma in questa follia si può vivere quasi spensieratamente, amare la moglie e osservare una ragazza simpatica sul treno. Il quieto edonismo di questi versi è permeato di stoicismo: della disponibilità, col susseguirsi degli eventi, ad accettare il mondo come dato di fatto, a vederne la coerenza. La guerra di ampio raggio sprigiona questo stoicismo: l’assurdo irrompe nell’esistenza quotidiana come una cerniera lampo, che ti esaspera, proprio quando occorre scappare nel rifugio. Parafrasando il celebre aforisma sugli atei, si potrebbe dire che nelle trincee non ci sono avanguardisti, – ma è inesatto: la precedente esperienza creativa del poeta Bel’skij, che ha cercato l’umano nel disumano, è servita ora per tenere quello stesso tono uniforme e la serena osservazione di fronte a quanto di disumano accade nel mondo: l’odio e l’avversità umana. E non sorprende che possiamo leggere i versi precedenti di Bel’skij attraverso il prisma della catastrofe, rovesciatasi sul suo paese: “in un giorno simile scompare / un vecchio ramo ferroviario / il campanile sul fiume / o qualcuno dei vecchi conoscenti” – c’era un tempo in cui le scomparse potevano essere pacifiche, e ora… O forse la scomparsa pacifica anche prima era un’illusione, e la catastrofe dormiva sempre in essa? Non lo sappiamo: a differenza di alcuni autori, esteticamente vicini (il russo Andrej Sen-Sen’kov, o, diciamo, l’ucraino Michajlo Žaržajlo), Bel’skij non allude mai a nulla. Ma quando parla direttamente, come nel 2022, – non c’è nulla da obiettargli.