Nella basilica di Santa Croce, a Firenze, c’è un monumento di marmo bianco, opera di Antonio Berti (1904-1990), che ritrae Ugo Foscolo nel pieno degli anni giovanili, in uno spavaldo atteggiamento da combattente, avvolto nel mantello e con stivali speronati, davanti a un «basamento di colonna greca» che «si ricollega alla sua lontana origine ellenica». L’articolo del caro amico e collega Armando Giardinetto racconta la poesia di Foscolo che mira ad affermare un’«illusione» assoluta. La poesia civile di Foscolo è modello di un legame intenso e profondo tra vita e letteratura. La stessa tomba di Foscolo ricostruisce questo «modello» tra vita e letteratura. Armando dedica queste parole «al petto della madre e del padre», il suo patrimonio umano.
Pietro Salvatore Reina
Italiano di nascita perché venuto al mondo il 6 febbraio del 1778 nell’allora possedimento della Repubblica di Venezia – l’isola greca di Zante o Zacinto, territorio di grande fascino citato per la prima volta in assoluto da Omero nell’Iliade – Nicolò Foscolo (Ugo, come amava farsi chiamare) è tra i più celebri scrittori, traduttori e poeti italiani dell’Ottocento in seno al neoclassicismo e al preromanticismo. Durante gli anni caratterizzati dall’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte e dalla sua discesa in Italia, Foscolo passò la sua vita viaggiando e fuggendo da un luogo all’altro a causa di problemi politici e questo lo fece sentire sempre un fuggiasco, d’altra parte non ebbe mai una vita semplice e felice: diventò orfano di padre già nella tenera età; visse due lutti profondi quando Giovanni e Giulio, suoi cari fratelli, si suicidarono; fu costretto sin da giovanissimo ad allontanarsi dalla sua amata isola natale, culla di ideali classici ai quali era molto legato: “Quantunque italiano d’educazione e d’origine… io, finché sarò memore di me stesso, non oblierò mai che nacqui da madre greca, che fui allattato da greca nutrice e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto” scriveva in una sua lettera del 29 settembre del 1808”; venne esiliato per questioni politiche e incarcerato per debiti; ammalatosi di fegato, morì a Londra il 10 settembre 1827.
Il greco, il latino e le tecniche di traduzione furono le principali discipline oggetto dei suoi studi. La letteratura in generale fu per lui una grande passione e amava riempire le giornate con la lettura degli autori del Settecento. Un fatto molto importante segnò la sua adolescenza, il suo carattere e la sua personalità sempre avversa alle cose non giuste: un giorno, a Zante, la popolazione decise di assaltare il ghetto ebraico, fu allora che un Foscolo ragazzo, gridando da sopra un muro, indusse la folla ad allontanarsi e ad abbandonare quell’idea indegna.
Ateo e pessimista, Ugo Foscolo visse continuamente con un’ansia interminabile, le sue idee sull’esistenza dell’uomo in quanto tale, sul decesso, sull’eternità, sul dolore, sul nulla eterno gli misero sempre moltissima angoscia.
Per lui la morte significava la fine di tutto e questo, a differenza di altri di concezione atea della sua epoca, lo terrorizzava tantissimo. Solo la tomba, compianta dai familiari e dagli amici, gli dava un poco di consolazione, ma essa, in quanto oggetto esposto alle intemperie e al tempo stesso, prima o poi verrà distrutta e l’umanità se ne dimenticherà, pertanto unicamente la poesia è eterna.
Foscolo non ebbe mai fede in Dio e nell’immortalità dell’anima; non esisteva per lui un inferno o un paradiso. Riteneva che gli antichi fossero stati fortunati perché credenti in dèi e dee in grado di migliorare la loro vita dando loro delle speranze, ma per lui la divinità era semplicemente pura invenzione, pertanto la cosa migliore da fare era credere in altri presupposti. Quali? Per Foscolo era necessario avere fede in altri ideali importantissimi e quasi tangibili come quello per la patria, per l’arte, per l’amore, per la filosofia, per la poesia: queste furono le sue vere illusioni; queste furono di fatto le componenti della sua religione delle illusioni.
Buona parte dell’Opera foscoliana, si può certamente dire, è invasa dal senso della morte in quanto fine di tutto e il sonetto che ci viene senza indugio in mente è “In morte del fratello Giovanni” (1803) in cui l’autore ci parla del compianto, dell’inquietudine, della tristezza, del dolore, del senso di impotenza, della tomba, della sofferenza dell’anziana e inconsolabile madre: “La morte dell’infelicissimo mio fratello ha esulcerato tutte le mie piaghe… Io mi figuro i martìri di quel giovinetto, e lo stato doloroso della nostra povera madre fra le di cui braccia spirò. Ma io temo che egli stanco della vita siesi avvelenato, e mia sorella mi conferma in quest’opinione”, così scrisse in una lettera al suo amico Vincenzo Monti, poeta, drammaturgo, scrittore e traduttore italiano.
Tre anni dopo la dipartita del fratello Giovanni e due anni dopo l’Editto di Saint Claud (1804) emanato da Napoleone Bonaparte, nel 1806 Foscolo scrisse il “Dei sepolcri” in cui tocca diversi temi tutti legati per senso tra loro: il lungo periodo di lutto conseguente a una perdita; le caratteristiche dei riti funebri soprattutto quelli inglesi e classici; le sepolture nelle chiese; il dolore per la perdita dei propri cari; la morte in sé – in quanto fine di tutto – e la vita infelice degli uomini; la concezione del sonno eterno nell’antichità e in ogni tempo; il ricordo dei Campi Elisi dove, secondo la mitologia greca e romana, dimoravano le anime dei giusti; i grandi mausolei funebri di uomini che hanno fatto la storia e che sono per i posteri esempi di etica da imitare e rispettare, tra questi Dante Alighieri, Machiavelli, Alfieri; Galilei e Petrarca. Il focus di tutto, però, è sicuramente l’importanza delle urne funerarie, vale a dire delle tombe, poiché esse stabiliscono ancora un ultimo contatto tra chi è andato e chi resta, ma si sa che a lungo andare le tombe vengono distrutte dall’usura del tempo stesso che scorre inesorabilmente. Questo tempo, tuttavia, non ha nessun potere distruttivo sulla poesia giacché essa è invece, come già detto sopra, eterna ed è in grado di eternare la memoria di un uomo o di una donna. Più specificamente in Foscolo il sepolcro in sé – che non serve ai morti che li abitano poiché essi sono soggetti alla decomposizione e i resti sono quindi destinati a scomparire, a dissolversi nel nulla – è assai utile ai vivi poiché suscita in loro il ricordo, l’affetto, l’amore, i veri valori che nella vita contano: “Mi vedrai seduto su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de’ tuoi gentili anni caduto” (In morte del fratello Giovanni). In Foscolo la sepoltura, si può chiaramente confermare, è l’illusione della vita eterna perché mantiene nitida la memoria del defunto. Quindi, finché ci sarà la tomba, lo scomparso continuerà a vivere dentro al cuore e alla testa dei propri cari e dei propri amici attraverso gli “amorosi sensi”: un continuum tra la morte e la vita; tra il presente e il passato; tra le parole e il silenzio; tra la terra e il cuore e la mente: “Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia al giorno, se può destarla con soavi cure nella mente dei suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi”. Quando la tomba scomparirà per sempre e con essa andranno nell’oblio i poveri resti del trapassato, solo la poesia potrà eternare la sua memoria. La probabilità di morire completamente soli senza avere amici e parenti che possano sostenere il moribondo nella sua ultima ora e il fatto che sia verosimilmente possibile avere dei funerali senza accompagnatori e senza che nessuno pianga sulla tomba angoscia moltissimo il poeta che in “A Zacinto” (1803) scrive: “Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”. Foscolo sa che la vita può essere veramente molto dura con gli uomini, quindi nella sua poetica la morte – che spesso sopraggiunge con il suicidio come in Jacopo Ortis – non ha sempre e comunque una valenza negativa, essa rappresenta l’unica via d’uscita, la sospirata tranquillità, la quietudine, la pace, la serenità dopo anni di conflitti, di delusioni, di sofferenze, di disperazione: “Forse perché della fatal quïete tu sei l’immago a me sì cara vieni o Sera… e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge” (Alla sera).
Assistito dalla figlia ventiquattrenne che lo seguì nella morte solo un paio d’anni dopo, Nicolò Ugo Foscolo morì a Londra e fu sepolto nel cimitero di Chiswick, piccolo distretto poco distante dalla capitale inglese. Adagiato nella bara, prima di chiuderla, gli vennero messe due monete di rame sugli occhi e venne sepolto. Dal 1871 le sue ceneri furono traslate nella Basilica di Santa Croce di Firenze, celebrata nel Carme dei Sepolcri, in tale basilica un meraviglioso monumento protrae la sua memoria: una statua di marmo lucido in una nicchia lo rappresenta come un giovane combattente avvolto nel suo mantello davanti a un basamento di colonna greca. Sotto c’è una scritta: “VGO FOSCOLO”.
A Londra, nel piccolo suddetto cimitero, resta una pietra tombale: “Ugo Foscolo. Died September 10 th 1827. Aged 50” per quel colloquio che dura anche oltre la morte alla base della eterna “Celeste corrispondenza d’amorosi sensi” che chiunque può intrattenere con il poeta di cui la produzione letteraria vanta di componimenti poetici, prose, opere teatrali, epistolari e romanzi.