Ormai confinata al rigido elenco del sommario delle antologie letterarie, il filone pedagogico, che ha conosciuto un grandissimo successo per buona parte del secolo scorso, accenna a spegnersi (o forse, più laconicamente, si è spento). Ancora oggi i prodotti d’impronta pedagogica realizzati nella seconda parte dell’Ottocento (alludo alla triade De Amicis, Salgari, Collodi) vengono frettolosamente liquidati e accompagnati spesso dall’odiosa perifrasi “non si leggono più come un tempo”; “sono datati”; “hanno perso il loro valore”; in un contesto simile, utilizzare il termine “capolavori” evidenzierebbe un fazionismo controproducente alla questione, o un palpitante sentimento patriottico che non si addice a tutte le opere realizzate, nonostante il Cuore di Edmondo De Amicis mirasse a costruirne uno.
Le ragione per capire il declino di tale genere penso debbano essere ricercate negli aspetti più criptici e, al contempo, facilmente traducibili leggendo lo scorrere del tempo storico e culturale della società nostrana. Ecco allora obbligatoria la traducibilità dell’opera in prodotto, con il quale intendiamo ciò che è sfruttato, attivamente o passivamente, da un bacino di utenza noto e veicolato dai mass media cartacei o digitali.
Nella seconda metà dell’Ottocento nel panorama culturale italiano i libri nascevano come prodotto di consumo e rappresentavano uno dei beni accessibili almeno per una fetta di popolazione, data la scarsa disponibilità di risorse in un paese povero e frammentato. La crisi inevitabile del genere pedagogico inizia stranamente da questo momento, ossia da quando ne constatiamo il successo per una svariata serie di motivi quali i principali sono: l’immediata fruibilità; l’estraneità totale (o parziale) al vero storico della materia trattata; e una diffusa attenzione pedagogica, la quale parrebbe muoversi seguendo il solco lasciato dal rapporto tra scrittore e pubblico.
Sull’immediata fruibilità del genere le ragioni più note coinciderebbero con la crescente scolarizzazione dell’Italia (in particolare della sua parte legata all’editoria industriale), e pertanto con il bisogno di leggere per crescere e alfabetizzarsi, intuendo nelle potenzialità della lingua le meraviglie dell’avvenire (chiave di lettura interessante per capire i presupposti del futurismo). Ovviamente analizziamo un processo culturale molto esteso, probabilmente mai raggiunto, ma di certo avviato. La triade De Amicis, Collodi, Salgari rappresentava una nuova letteratura per la prima generazione di italiani del ventesimo secolo. La summenzionata immediatezza inoltre era corroborata da un linguaggio che, al netto delle polemiche, definiremmo fiorentino colto; per cui grande attenzione rivestivano quelli che Marazzini chiama “i canali di diffusione del toscano” riprodotti appunto da Collodi, Salgari e De Amicis, il quale, seppur settentrionale d’origine adottò sempre il dialetto toscano per i suoi libri (Marazzini, 2014). Per decifrare umori e pareri del pubblico di allora, credo che non ci sia modo migliore che affidarsi alle parole del Petronio: “il pubblico legge, ma raramente il suo punto di vista coincide con quello dei letterati e dei critici” (Petronio, 1991). Da questa scissione è nata la distinzione tra codesti scrittori, capaci d’indovinare i sentimenti del pubblico dimostrando maggiore affabilità, e una letteratura d’élite,una minoranza sottocutanea che, come scrive Petronio “assumerà, col primo costituirsi di una società di massa, forme macroscopiche”. Sull’estraneità totale (o parziale) al vero storico della materia trattata l’analisi è molto interessante poiché percorre due binari paralleli: da un canto la prosa di Collodi è astorica, È proprio l’attenzione pedagogica a stabilire il successo di Cuore, Le Avventure di Pinocchio, e le mirabilie salgariane; un’attenzione, come precisavo, che si muoverà in maniera indistinta verso tre ambiti.
Nel rapporto tra lo scrittore e il pubblico la facilità di rendere semplici interpretazioni è elusa da una serie di sovrastrutture interessanti. Cuore, per esempio, il celeberrimo diario-epistolario, non è solo la testimonianza del caro Enrico Bottini, ma la fotografia analitica di un gruppo di classe variegato e di una serie di bozzetti dell’Italia post-unitaria. Limitandoci nella fattispecie alla classe, l’impianto narrativo consente all’autore di soffermarsi su migliaia di problemi che affliggevano l’arco storico-cronologico di riferimento, e nondimeno moderni: l’inserimento di un nuovo compagno nella classe; la graffiante descrizione del bullo (l’odiato Franti, con buona pace di Eco); il sacrificio enorme compiuto da grandi e piccini tra scuola e lavoro; insomma un abbecedario di concause scolastiche, didattiche e umane.
Nelle Avventure di Pinocchio la graduale evoluzione di un ragazzo in un mondo dai contorni fiabeschi ci sorprendee sancisce la quasi immediata personificazione con il burattino, metafora della vita stessa del bambino. Ecco che l’assenza di genitorialità, la conoscenza del male, la catarsi, l’orrore di ritrovarsi di fronte a un pescatore verde sono esperienze trasversali che decifrano – e incidono – un’età (direi indefinita) e l’assenza di consapevolezza in un mondo, in una patria da definire o da costruire, secondo i punti di vista.
Dulcis in fundo Emilio Salgari, “autore fecondissimo di libri di viaggi e di avventure” (Petronio, 1994), media il rapporto pedagogico trasferendovi un modello unitario eticamente valido, mondiale piuttosto che limitatamente italiano. Giacché la sua letteratura è geografia, cioè proprio nel senso etimologico di conoscenza della terra, unita alla comprensione di tutte le sfumature dell’agire umano; quest’ultima, a dispetto della prima, non è desunta da una consultazione frenetica delle enciclopedie e degli atlanti, ma esperita dal proprio drammatico vissuto. Per cui l’attenzione di Salgari vira su una pedagogia di sentimenti e, di conseguenza, relativa a un’educazione civile di stampo eroico (quasi omerico), nella quale l’amicizia, il coraggio, l’onore, il rispetto per la persona, sono alla base di una ricomposizione finale frequentemente sospesa, ma ciclicamente ricongiunta, di ciò che era ed è.
Le ragioni dell’oblio, quantunque seguano il fallimento di una tradizione culturale (come se in Francia smettessero di leggere Jules Verne o Maurice Leblanc!), vanno ricercate in altrettanti motivi, precisamente tre, i quali vado a elencare: critica letteraria ostile; mancata fruizione delle opere letterarie del periodo; recrudescenza o scarsa attenzione pedagogica alla pluralità di aspetti concentrati dalle opere o più in generali ai rapporti delineati in precedenza.
Cominciando dalla critica letteraria ostile è strettamente importante valutare che una più ampia alfabetizzazione abbia portato una maggiore stratificazione di lettori e di gusti , ma il mancato riconoscimento letterario, soprattutto a grandi livelli, non ha giovato a nessuno dei tre autori. Senza dubbio Salgari fu il più bersagliato, e al contempo il meno capito. Tra gli autori menzionati in molte letterature del secolo scorso è ignorato o a malapena citato (vedi Momigliano, Petronio, Ferroni, Baldi). I motivi sono oscuri, anche perché il successo fu di gran lunga spropositato rispetto agli autori inclusi; ritengo comunque che l’abnorme quantità di libri scritti serbasse il sospetto di prodotti pre-confezionati, schemi per i quali l’autore reiterava una situazione già pronta per le stampe. Invece il lavoro di Salgari era mastodontico, scandito da tappe irrinunciabili, braccato dalla malasorte, a tratti pure distrattamente ripetitivo (spesso all’interno della stessa opera), e se lo fu, lo fu inconsciamente. Al contrario di quanto asseriva Benedetto Croce definendolo sciatto, la prosa di Salgari è semplice nella mescita del linguaggio, costruita con un periodare ipotattico e, dal punto di vista del genere, oserei dire, elastica, perché nel miscuglio tra epico e fantastico la divaricazione lambisce due poli: il naturalistico e il sentimentale, che bisogna interpretare, solo ed esclusivamente, in funzione del quadro storico utilizzato. L’aspetto che non riuscì a comprendere la critica di fine Ottocento e la quella successiva si riconosce proprio in queste parole: decontestualizzare la materia e preservare l’unicità, sembrava troppo banale e forse non degno dell’immagine di un paese in via di costruzione.
Nei tempi moderni, invece, tale atteggiamento è una prassi consueta (si veda Harry Potter e altre saghe consimili, con il conseguente abbassamento del livello medio della comprensione testuale e della preparazione culturale in genere per lo più di tipo geografico culturale). Oltre alla beffarda modernità dei tempi, la mancata fruizione dei contenuti autoriali brevemente delineati ha sancito il triste decalage con il quale abbiamo cominciato la nostra riflessione- La mancata fruizione nasce da un’acredine aprioristica nei confronti del genere, il quale evidentemente non è stato ritenuto valido (almeno quello strettamente italiano), per confrontarsi con le generazioni di fine ventesimo e inizio ventunesimo secolo. Non penso che la mancanza di un utilizzo diretto del genere abbia comportato la nascita e la proliferazione di una generazione di debosciati o di ragazzi privi di valori, ma l’assenza di una proposta culturale intellettualmente stimolante, che possa piacere o no, porta quanto meno a una riflessione, un dubbio: respingere, perché è vecchia retorica, o accogliere i valori; vivere la paura, conoscendo il mistero della catarsi, o evitarla; verità, e il rischio di conoscerla, o omertà; il bene conoscibile o il male insondabile? Evitare tale discernimento significa orientare un’utenza varia (non per forza infantile) a vedere la prospettiva delle cose sotto altri punti di vista semplici e superficiali.
E non possiamo esimere la letteratura da questo nobile compito, né dunque dalla proposta, dalla valorizzazione, dalla pubblicazioni di voci di cui abbiamo bisogno sia per recuperare il passato e la sua profondità culturale, sia per capire il presente.
Libri consultati:
G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palumbo, 1994.
C. Marazzini, La lingua italiana. Storia, testi, strumenti, Il Mulino, 2015.