Proseguiamo il viaggio di come Dante segna e impreziosisce la nostra vita intervistando Stefano Jossa, professore associato di Letteratura italiana presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo. Un raffinato e acuto critico letterario, uno studioso della Letteratura del Cinquecento, ha collaborato con i quotidiani «la Repubblica» e «il manifesto». Autore, tra gli altri, dei saggi Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano (Laterza, 2013) e La più bella del mondo. Perché amare la lingua italiana (Einaudi 2018).
D.: Può raccontarci a quando risale il suo primo incontro con Dante? Come e cosa ricorda?
R: Dante l’ho incontrato, come la maggioranza degli italiani, da studente di scuola. Molti lo hanno odiato, ma a me colpì subito la potenza dell’immaginazione e del linguaggio. Allora, anni Ottanta, lo si leggeva enfaticamente, alla Gassman: così lo leggeva anche il mio professore di liceo, che interrogava aprendo il libro a caso e leggendo solo un verso. Allo studente toccava commentare, contestualizzare o continuare, a scelta sua. A me capitò «Corda non pinse mai da sé saetta» (Inferno, VIII 13), cui risposi: «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto» (VIII 19). Ebbi nove: chissà se mi sono innamorato di Dante per la gratificazione ricevuta o per una fascinazione autentica. Qualcosa di questo metodo, comunque, tra lettura ispirata e religione testuale, dev’essermi rimasto, se a una delle prime letture dell’Inferno da insegnante, in un liceo di Roma, un alunno commentò semplicemente: «gagliardo».
D.: Quale rima, terzina o frase dantesca ha guidato e guida il suo quotidiano lavoro?
R: Di recente, per un dizionario di versi danteschi che sono diventati proverbiali, curato da Irene Chirico, Paolo Dainotti e Marco Galdi per ETPbooks, ho scelto l’espressione: «Perder tempo a chi più sa più spiace» (Purgatorio, III 78: quasi un verso, tolto il «che» iniziale), che mi ispirava per la dialettica tra tempo e intelligenza: ero partito dall’idea che il sapiente non spreca il tempo, ma sono arrivato alla conclusione che «perder tempo», al di fuori delle costrizioni capitalistiche della produttività, è bello. Dante sorprende sempre, quando si scava a fondo la complessità del suo testo: perder tempo vuol dire la possibilità di dedicarsi a sé stessi e ai propri pensieri, di non pensare al risultato immediato, di privilegiare emozioni e sentimenti rispetto alla logica del profitto a tutti i costi. D.: La figura di Dante come uomo e letterato è davvero piena e completa: un politico, un poeta e scrittore, un esule con prole al seguito, un condannato a morte sempre alla ricerca della giustizia. Cosa quest’uomo oggi può davvero insegnare? Quale segno nella vita dei giovani e dei meno giovani può porre?
R: Dante non deve insegnare, ma può accompagnare. La lettura della Divina Commedia aiuta a porsi problemi di tutti i tipi, dall’esistenziale al teologico, da «chi sono?» a «Dio esiste?», facilitando un approccio universalistico, l’introduzione alle grandi domande di senso. Ma fare di Dante uno strumento di educazione ai valori, come hanno voluto tutti i suoi devoti, da De Sanctis in poi, rischia secondo me di far perdere la sua storicità, da un lato, e la sua letterarietà, dall’altro lato: di Dante cioè vanno percepite anche, al di là di qualsiasi attualizzazione, la distanza, perché è un uomo del Medioevo, e la poesia, perché inventa un mondo fatto d’immaginazione e di linguaggio. Non è l’uomo Dante, insomma, a doverci interessare, ma il poeta Dante, che si è posto delle domande cui ha dato risposte prima di tutto letterarie anziché morali. Non sta dicendo, infatti, come hanno voluto i critici romantici, di simpatizzare per Francesca e Paolo o di seguire il discorso di Ulisse, ma sta raccontando storie umane di errore, fallimento e caduta che sono, sì, condannate all’inferno e al tempo stesso vissute con curiosità dal Dante personaggio, ma soprattutto servono a esplorare la varietà degli atteggiamenti umani rispetto alla vita e la necessità di collocarli nel nostro orizzonte di valori. Dante è un esempio di dedizione alla conoscenza cui possiamo chiedere prima di tutto di accompagnarci nel nostro percorso di conoscenza. Perciò Purgatorio e Paradiso non possono essere trascurati a favore dell’Inferno, in quanto il mondo dantesco non sarebbe completo senza il percorso che Dante, sia poeta sia personaggio, compie. A ciò si aggiunge il fatto che Dante non è solo il poeta della Commedia, ma anche l’autore della Vita Nova, di trattati sulla filosofia, la lingua e la politica, di opere in latino, di ricerche scientifiche e di lettere diplomatiche. Per capirlo non si deve chiedergli la lezioncina, ma leggerlo, interrogarlo, criticarlo e sfidarlo. Dante ha tanto da dire non a chi lo prende per oro colato, ma a chi vuole confrontarsi con lui, ridandogli un’identità di persona. Perciò mi è piaciuto il film recente di Pupi Avati, Il giovane Dante, che gli restituisce l’aspetto umano che la critica gli ha troppo spesso tolto, facendone un santino da venerare o un prontuario di sentenze per un catechismo laico quotidiano. Confrontarsi con Dante sarà ripensare la Firenze medievale, immergersi nella lotta per le investiture, capire il potere dei papi, riscoprire la Bibbia, l’Eneide e le Metamorfosi, introdurre Milton, Byron, Levi o Walcott, aprirsi ai rifacimenti della Disney e di Pressburger, ragionare sulla Shoah con Peter Weiss e sul Covid con M Fulcro. Dante diventa una costellazione, un caleidoscopio, che conduce verso nessi inaspettati e coincidenze sorprendenti: è un’enciclopedia, come forse lui voleva che fosse il suo poema. Non responsabilizziamolo troppo, perché la sua funzione non è d’indicarci la strada, ma di farci compagnia nella ricerca della nostra strada.