Cara signora,
lei di me non ricorderà nemmeno il nome.
Ne ha bocciati tanti.
Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi
colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola,
ai ragazzi che <<respingete>>.
Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e
ci dimenticate.
Così comincia uno dei libri che ha segnato la nostra epoca, un periodo fondamentale della Storia italiana del Novecento, un testo foriero di straordinari rivolgimenti culturali e sociali, e sicuramente anche politici. Lo scrissero don Lorenzo Milani (27 maggio 1923 – 26 giugno 1967) e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello, in Toscana.
Era un luogo sperduto dell’Appennino dove don Milani giunse nel dicembre del 1954 a trentuno anni; un luogo abitato da poche decine di persone, di anime, e che, anche dopo il “miracolo economico” (1958 – 1963), sarà afflitto da miseria e arretratezza. E grazie a don Milani, peraltro la diocesi aveva l’intenzione di chiudere quella parrocchia ma decise di mantenerla unicamente per lui (punizione…), Barbiana diventò un luogo conosciuto da tutti, in tutto il mondo.
Di lì uscì nel 1957 un altro testo essenziale “Le esperienze pastorali”, che secondo alcuni anticipava diversi temi del Concilio Vaticano II, che si aprirà nel 1962 e rappresenterà un aggiornamento e una trasformazione della Chiesa, una sorta di riconciliazione della Chiesa col mondo, nel quale si affermerà un Dio fascinans e non più tremendum. Poi, nel 1965 verrà pubblicato un altro famosissimo scritto “L’obbedienza non è più una virtù”, per il quale il prete di Barbiana sarà processato e addirittura condannato pur essendo già morto.
“Lettera a una professoressa” diventò il libro di una generazione, una sorta di libretto rosso del movimento studentesco italiano e un vademecum di ogni insegnante democratico per molti anni. Ma al tempo stesso, il libro fu avversato, e continua ancora oggi a suscitare ostilità in chi pensa che sia stato <<la fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori; come l’inizio, insomma, del “donmilanismo”, malattia infantile dell’istruzione di massa>>. Ma non è facile, anche per i più incalliti anti-donmilanisti, far dimenticare il prete di Barbiana, e anzi noi siamo tra quelli che ne rivendicano l’attualità, e non solo per l’affermazione crociana secondo la quale <<La storia è sempre contemporanea perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni>>. Infatti, attualità non è il momento in cui una cosa accade, ma il significato, il valore, le scelte che hanno determinato quella specifica realtà. Attualità vuol dire: la possibilità di identificarsi, di immedesimarsi, di potersi riconoscere nell’essenza di ciò che è avvenuto prima; e don Milani rappresenta, ancora oggi, un riferimento per tanti a motivo delle sue scelte anticomformiste, perché non sottomesso alla “tirannia delle mode” e in continua ricerca (“Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”, secondo l’insegnamento socratico) perché si batteva concretamente per una società fondata sulla giustizia e sull’eguaglianza.
Attuale perché ci aiuta a capire le difficoltà, a comprendere che i problemi non sempre hanno facile soluzione e quando agiamo occorre pazienza (la pazienza del contadino, che sa aspettare e rispetta i tempi della natura). Attuale perché giungiamo alla conclusione non consolatoria, ma realistica, che il progresso è una aspirazione costante, seppur contestata e contrastata; sotto questo riguardo non lo “monumentalizziamo”, ma lo caliamo nella concretezza storica.
Qual era, dunque, il contesto storico nel quale si svolse la sua vicenda umana?
Il mondo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, era diviso in due blocchi contrapposti che davano vita alla “Guerra Fredda”, cominciata con lo sganciamento delle due bombe atomiche americane sul Giappone (Hiroshima e Nagasaki, 6 e 9 agosto 1945), continuata con il discorso tenuto a Fulton da Churchill (1946) e “certificata” dalla politica del “contenimento” e del “roll-back” di Truman. Era stata fondata la NATO (1949), Alleanza militare a trazione statunitense, e sei anni dopo il Patto di Varsavia, a guida sovietica; comunque, era quella la fase che Hobsbawm definì <<l’età dell’oro>> del <<Secolo breve>>, un’età che, pur con gigantesche difficoltà, fu foriera del progresso, dello sviluppo economico e dello <<stato sociale>>.
Fu il tempo della “decolonizzazione”, il 1960 è l’anno in cui l’intera Africa si libera del colonialismo, del declino dunque degli imperi coloniali, dell’autodeterminazione dei popoli e della breve stagione dei non-allineati, che nella conferenza di Bandung (1955) avevano rappresentato un’importante novità nello scenario mondiale. Fu anche la fase della “distensione”, seppur nel quadro della “Guerra Fredda”, che favorì il dialogo Est-Ovest e il rinnovamento, come detto prima, della stessa Chiesa cattolica con la convocazione del Concilio Vaticano II (1962).
Ma soprattutto vorrei evidenziare i mutamenti portati in Italia dal “boom economico” (1958-1963), dall’affermazione di una grande crescita industriale nella nostra società, da un processo di modernizzazione che arrecò, seppur anche qui attraverso il passaggio drammatico del governo Tambroni nel luglio del 1960, a quel centro-sinistra che tentò di avviare una politica di riforme, ma che verrà travolto dal movimento studentesco (1968) e dall’”autunno caldo” operaio.
Il riformismo verrà soppiantato negli anni Settanta da una risposta reazionaria caratterizzata dalla “strategia della tensione” e dal tragico mantenimento della “conventio ad excludendum”, marchio di fabbrica della storia italiana a partire dal secondo dopoguerra.
Il centro-sinistra, però, fu portatore di due vere riforme: la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola media. Ecco: la scuola diventò, e lo diventerà ancora di più negli anni futuri, un terreno di lotta centrale per la trasformazione della società italiana, per un reale cambiamento dei rapporti tra le classi, per un’effettiva crescita democratica. In pratica, si trattava di attuare la Costituzione (articoli 33 e 34) e dare concrezione a quanto aveva scritto Piero Calamandrei a proposito della scuola << La scuola organo centrale della democrazia…la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue: gli organi ematopoietici, quelli da cui parte il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che porta a tutti gli altri organi, giornalmente, battito per battito, la rinnovazione e la vita>>.
Dunque, la centralità che la scuola assunse nella vita, nell’impegno pastorale di don Milani, in sintonia peraltro con quanto avveniva a livello nazionale e internazionale: basti pensare al “Manifesto di Port Huron. Agenda di una generazione” degli studenti americani all’inizio degli anni Sessanta, delle lotte nelle più importanti università statunitensi, delle occupazioni nell’autunno del ’67 in Italia, del “maggio francese” nel ’68, e in generale la denuncia della “scuola di classe”, della “selezione di classe”, della scuola che escludeva le classi subalterne e non consentiva la mobilità sociale; anzi, perpetuava un blocco della società, uno dei tratti originari della d’Italia.
In conclusione, mi piace dar risalto ad alcune “parole chiave” riferite all’esperienza di don Milani: dialogo, uguaglianza, sapere, pace, il soggetto e l’altro, (presa della) parola e comunicazione, e si potrebbe continuare. Ma desidero, di nuovo, richiamare la Costituzione italiana a proposito di una parola che, a mio avviso, connota l’azione straordinaria della scuola di Barbiana: riconoscimento. Non per caso, la categoria del riconoscimento è fondativa della stessa modernità ed è usata tantissime volte nella Costituzione italiana; cito solo alcuni articoli: 2, 4, 5, 10, 29, 35, 45, 46, e così via. La Costituzione pacifista e dell’eguaglianza che all’articolo 3 afferma << Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua (sottolineatura mia), di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.>>