Omnis homines qui sese student praestare ceteris animalibus summa ope niti decet ne vitam silentio transeant ossia l’intero genere umano, che ambisce a primeggiare sulle restanti creature, è naturale che cerchi di dimostrare la sua primazia per non compiere una vita restanti creature, è naturale che cerchi di dimostrare la sua primazia per non compiere una vita avvolta dalle ombre dell’inutilità.
Si apre così La Congiura di Catilina, la prima delle monografie sallustiane che cerca di comprendere i motivi di decadenza della repubblica romana, con un processo del tutto nuovo: capire il presenta attraverso l’interrogazione del passato, risalendone a ritroso e soffermandosi su un caso in particolare. Nelle indagini precedenti ci siamo occupati di tracciare il perimetro della definizione di storia di Sallustio; il motivo per cui tale reietto della vita politica romana si lanci in questa nuova disamina storica; il momento storico in cui opera; e in che modo le sue monografie si propongano di affrontare le quaestiones più importanti. Rimane senza dubbio centrale, anche nella successiva monografia relativa alla guerra giugurtina, l’apertura filosofica che offre lo storico, concentrandosi sulla distinzione basilare tra anima e corpo: l’anima, se retta dalla virtù, si eleva verso il raggiungimento di grandi obiettivi; il corpo invece è afflitto dalle debolezze della natura; se libero da queste debolezze, diventa immortale.
Non è di certo il contesto appropriato chiarire se Sallustio riversasse nella sue monografie distillati di filosofia o comunque una vicinanza tangibile al neoplatonismo, movimento di moda nel I a.C. Invece è interessante notare come il procedere logico dell’opera storica abbia un impianto definito che sviluppi un discorso per distinzioni polari, seguendo quasi una struttura chiastica, di netta contrapposizione: omnis homines vs. ceteris animalibus; animi imperio vs. corporis servitio; divitiarum et formae gloria vs. virtus clara aeternaque. Proprio su quest’ultimo punto troviamo un aggancio per capire le motivazioni, non tanto recondite, che spingono Sallustio a scrivere di storia: nobilitare il proprio spirito seguendo il sentiero della gloria imperitura ed eterna in funzione di Roma, il faro guida di un intera civiltà.
Esagerazione, pretesto fittizio, o nuovo modo di concepire la storia? Le monografie potrebbero essere in sostanza la sintesi di tutte e tre le funzioni, partendo dal presupposto che il pretesto fittizio (fare storia per nobilitare la propria anima) tradurrebbe una certa mentalità molto in voga durante l’età repubblicana: quella della nobilitazione del proprio mestiere; per cui lo scrittore di storia era considerato una figura socialmente ed eticamente inferiore, in quanto lo scritto storico non si traduceva in un azione concreta, ma al contrario variando i connotati della realtà -o meglio trasponendoli- in una vicenda losca con il rischio di addure per iscritto elementi pretestuosi o per nulla verosimili; paradossalmente lo storico non era ritenuto un narratore quale eternatore di imprese, ma uno scribacchino di poco conto, perché non compiva essenzialmente un atto pratico: la guerra, nell’organizzarla o nel condurla. Ciò indubbiamente avvalorerebbe la tesi per cui gli storici antecedenti a Sallustio o si sono limitati a riportare date ed eventi notevoli o hanno raccontati i fatti con una prosa scarna (Sallustio con le Historiae tornerà curiosamente ai suoi archetipi primitivi) evitando di menzionare i nomi dei comandanti e l’esito specifico delle imprese, limitandosi ad offrire ritratti morali dal gusto quasi antropologico (si vedano le Origines catoniane).
Proseguendo sul solco della giustificazione dell’attività storica nel De Coniuratione Catilinae al capitolo III troviamo: pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; in questo inciso è gradevole la scelta di dicere che è utilizzato nella sua accezione di scrivere in maniera appropriata, seguendo con costanza un’etichetta precisa; e di utilizzare la parola scritta e la sua efficacia di farsi parola parlata nella riflessione dei fatti e degli avvenimenti più importanti (res gestas); nonché di adoperare non le capacità intellettive, ma le facoltà oratorie come se fossero le sole a detenere un’importanza cruciale per le sorti di Roma, del resto Cicerone lo ricorda nel De Oratore (III, 10, 38): neque enim conamur docere eum dicere, qui loqui nesciat cioè in ragione di ciò non tentiamo di insegnare l’arte del saper dire a coloro che non sanno parlare.
La “parola” di Sallustio è principalmente parola storica e quanto ci siamo ripromessi di trattare splende successivamente, all’interno sempre del III capitolo del proemio nel quale, partendo dalla netta distinzione tra narrator e factor, Sallustio affronta un concetto che credo abbia cambiato il modo di concepire la storia e il concetto stesso della disciplina per chi la scrive e per chi la legge. Il compito dello storico, egli sostiene, è arduo essenzialmente per due motivazioni: in primo luogo perché deve essere utilizzato un linguaggio appropriato (non si capisce qui se Sallustio alluda a un livello terminologico idoneo alla riproposizione degli avvenimenti, oppure se voglia sostenere che l’indagine storica necessiti di una perfetta corrispondenza tra il fatto e le fonti storiche in possesso dello storico); in secondo luogo, la difficoltà di intraprendere tale incarico sarebbe ascritta alla capacità di recepire il racconto storico, cioè una distonia a livello interpretativo da un’utenza in questione, senza dubbio elitaria: per alcuni le parole dello storico, se denunciano dei problemi o dei motivi della decadenza fisiologica di un popolo sono frutto di una prospettiva erronea e di un punto di vista fazioso, una “miopia” che può essere dettata da un’invidia precisa: contesto politico non gradito, motivazioni personali, mancato riconoscimento della validità del governo in atto (a tal proposito è curioso notare che Sallustio intercorse in questo problema); per altri, se e quando lo storico avrà ricordato la grandezza delle imprese, sarà facile identificarsi con la descrizione del fatto, almeno per coloro che si sono riconosciuti nella storia, sicuramente tra i vincitori; i vinti, d’altra parte, screditeranno il vero e ripudieranno la descrizione compiuta perché quanto raccontato non dà giustizia alla loro personale versione.
Molti storici (De Sanctis, La Penna) ritengono le opere di Sallustio libelli politici, ma propongono alcune ipotesi interpretative nella riproposizione del metodo adoperato suggerendo che probabilmente la prassi adottata potrebbe essere stata faziosa. Gaetano De Sanctis notava infatti che il Senato, nel caso della guerra giugurtina, attuò una diplomazia idonea al superamento dello stallo del conflitto e alla sua risoluzione; l’opposizione antisenatoriale però seppellì sotto un cumulo di calunnie tutti questi tentativi. Allora la mancanza di moralità che denuncia Sallustio da storico (e non da uomo politico, precisazione quanto mai ovvia) fu vera o costruita ad arte? Insomma ci fu o non ci fu corruzione? E Catilina fu reo o vittima del sistema? Si dovrebbero considerare alcuni aspetti chiave a comprendere i motivi della decadenza del sistema repubblicano e, senza dubbio ne parleremo più avanti.
Ma ritornando a Sallustio credo sia opportuno considerare di parte il racconto storico dispensato nelle due monografie, e possibilmente dei due macro temi utilizzati lo storico latino doveva farne un utilizzo paradigmatico; la sua idea di storia contempla un fatto e un monito. Se la politica del Senato, basandoci sui dati in nostro possesso, fu giusta, ci troviamo di fronte a uno storico fazioso? La riconsiderazione totale degli eventi (sia dalla parte di Catilina, sia dalla parte di Giugurta) osteggia la comprensione o la veridicità del racconto? Antonio La Penna sostiene che Sallustio sia uno storico di parte con tendenze antisenatoriali e fortemente ambiguo: se era contro i nobili da un lato, dall’altro richiamava l’animus mortalium ai valori della nobilitas; la sua tendenza di populares oscura la narrazione. Non ritengo però che questo animus politicus sia necessariamente un limite nel fare storia. Sallustio espone un’idea, un principio basilare: storia è riconsiderazione degli eventi alla luce delle opportunità presenti; capire il passato consente di adottare un sistema correttivo per il presente. Questa valutazione personale rientra nel mestiere di storico. Sentenziare questo o scovare tendenziosità, frutto di errori cronologici volutamente modificati, significherebbe amputarne il pensiero.
Sallustio è uno storico del pensiero repubblicano, uno storico in senso moderno che comprende quanto sia imprescindibile il metodo regressivo nello studio della storia (più avanti di questo stesso avviso sarà Marc Bloch) che tenendo i palmi delle mani sui volumi del presente, ritorna al passato cercando di trovare una catena segreta, consequenziale alla crisi nel suo caso (e non quello di un altro storico, o quella di una definizione di storia ideale, giacché non esiste); la verità di cui egli ci parla è una curiosa teoria anticrisi, indubbiamente la prima a capire che le sorti degli avvenimenti dipendono esclusivamente all’agire umano (che corrisponda o meno ai fatti accaduti). Dunque non è un’annalista per intenderci, e partendo da qui, pensare che ci siano delle deformazioni storiche potrebbe essere una scusa di comodo. Sallustio vuole spiegare i grandi mali della società repubblicana ormai prossima al declino e tutto è proporzionato a essa e in parte ispirato alle sue idee politiche del passato covate nell’oscuro otium del presente, mentre l’eredità di Cesare va disfacendosi nelle lotte intestine che ripercorrevano l’ultima sussulto della repubblica, ormai prossima a un nuovo trasversale cambiamento.