Tra le più lussuose e belle strade di Napoli ce n’è una intitolata a Francesco Petrarca – padre dell’Umanesimo, scrittore, filosofo, poeta e filologo – che nacque ad Arezzo nel 1304.
Suo padre, il notaio Ser Petracco, fu un guelfo bianco e fu un amico di Dante Alighieri – con il quale condivise la sorte dell’esilio – che lo stesso Francesco incontrò di sfuggita a Pisa. A 8 anni l’Aretino – così poi soprannominato dagli studiosi – si trasferì ad Avignone con il padre poiché quest’ultimo ebbe un incarico presso la corte pontificia e proprio qui il giovane poeta iniziò a studiare con un precettore. Qualche anno più tardi, per volontà del genitore, fu mandato a Montpellier perché studiasse il diritto che, però, non amava particolarmente. Qui venne raggiunto dalla funesta notizia della morte dell’amata madre, Eletta Canigiani, alla quale dedicò in latino Epistole metricae 1,7.
Verso i 16 anni Francesco Petrarca verrà mandato a Bologna dove visse per 6 anni per continuare gli studi legislativi, qui il poeta coltivò i primi interessi letterari e filosofici. Alla morte del padre, che avvenne nel 1326, si sentì finalmente libero di lasciare gli studi sulla giurisprudenza e di dedicarsi completamente a quelli sui classici. Nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, il 6 aprile 1327, incontrò Laura de Noves e, innamorandosene perdutamente, scrisse Chiare, fresche et dolci acque: Laura, bagnandosi nel fiume sotto lo sguardo innamorato del Petrarca, diviene un’ossessione, l’oggetto irraggiungibile del desiderio che non ricambierà mai il sentimento, perciò per il poeta questo amore sarà fonte di dolore e, al tempo stesso, di nutrimento anche dopo la morte di lei che, ammalatasi di peste nera, esalerà l’ultimo respiro nel 1348. Nella canzone 359 – in morte di Madonna Laura – lei lo raggiunge in sogno per consolarlo; invece nei Trionfi (1351 -1374), a due ore dalla sua morte, gli appare in vesti candide, trionfando sulla morte, e gli confessa di essere sempre stata a conoscenza dell’amore nei suoi confronti, ma non gli dice se lo avesse mai ricambiato.
Pochi sanno che Francesco Petrarca, durante la sua vita, ebbe due occasioni che lo portarono a soggiornare nella città partenopea, allora sotto la corona angioina, in veste di ambasciatore e di portavoce del papa. La prima volta che si trovò a Napoli fu nel 1341, dimorò in alcune delle stanze di Castel Nuovo come ospite del re Roberto d’Angiò. Napoli gli apparve una città incantevole tanto che la definì “città felice” e fu proprio all’ombra del Vesuvio che volle farsi esaminare dal re prima di recarsi a Roma per ricevere l’alloro. A novembre di due anni dopo, nel 1343, Petrarca venne per la seconda volta a Napoli, stavolta forse ospite in uno dei palazzi dei Colonna di Stigliano, per chiedere alla regina Giovanna I d’Angiò, da parte di Clemente VI, la liberazione di alcuni prigionieri politici rinchiusi nelle prigioni di Castel Nuovo. Durante questo secondo soggiorno il poeta fu testimone di diversi eventi negativi che gli fecero cambiare il suo giudizio sulla città. Racconta, infatti, che si trovò nel bel mezzo di un’accesa lite con omicidio vicino alla chiesa di San Giovanni a Carbonara, per questo Napoli divenne per lui un luogo pericoloso, incivile, confusionario, ma anche un luogo meraviglioso, incantato, bello, affascinante soprattutto per i laghi d’Averno e di Lucrino e per la grotta della Sibilla per essere dei siti ricchi di classicismo.
Inoltre Petrarca fu testimone di un’altra sciagura che lo lasciò esterrefatto, si tratta di uno tsunami che si abbatté proprio in quelle settimane sulla città che già da diverso tempo sottostava a un cielo grigio e piovoso. Il racconto di quello che successe quella notte del 25 novembre lo troviamo nella lettera numero 5 del libro V delle Epistole Familiari – Ad Iohannem de Columna – appunto inviata al cardinale Giovanni Colonna (1295 – 1348) a cui fa anche accenno a una profezia proveniente dalla vicina isola d’Ischia: “Io ti vo far persuaso che nulla di così orribile, nulla di così furioso erami avvenuto di vedere giammai. Egli è meraviglioso a dirsi che già la fama dell’imminente flagello aveva annunziato: e certo Vescovo di un’isola di qui vicina il quale si diletta d’astrologia, or son pochi giorni lo aveva predetto… la rovina di Napoli… Era pieno tutto quello spatio di persone affogate… Aveva appena preso sonno, quando con improvviso orrendo fragore non le sole finestre ma tutte le mura… si scuotono… balzammo dai letti… Mi svegliò un… terremoto… gettati tutti a terra non facevamo altro… che invocar la misericordi di Dio”. Il poeta restò così scosso da quella esperienza che non rimise mai più piede a Napoli. Rivolgendosi sempre al ricevente, scrisse: “Io ne trarrò solo questa conclusione: pregarti che tu non voglia più ordinarmi d’affidare la mia vita ai venti e alle onde. In questo non vorrei ubbidire né a te, né al Pontefice Romano e neppure a mio padre, se tornasse in vita. Lascio il cielo agli uccelli e il mare ai pesci; animale terrestre, scelgo un viaggio terrestre”.
Oggi, grazie a varie ricerche universitarie (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Università di Modena-Reggio Emilia e Urbino; Istituto di studi del Mediterraneo antico del Consiglio Nazionale delle Ricerche, City University of New York; American Numismatic Society; Associazione Preistoria Attuale), sappiamo con certezza che l’evento di cui ci parla Petrarca riguarda un maremoto che investì il golfo di Napoli e quello di Salerno, colpendo fortemente addirittura la ridente cittadina di Amalfi, e che tale funesto evento fu causa di moltissimi morti e feriti e di ingenti perdite anche a livello architettonico. Secondo le suddette ricerche la causa di tutto fu una frana sottomarina avutasi a Stromboli, nelle Eolie, in Sicilia: “Non si può pingere con pennello, né scrivere con parole quella, ch’io vidi jeri… cosa unica ed inaudita in tutte l’età del mondo” scrisse l’Aretino che morì più di trent’anni dopo – il 19 luglio 1374 – ad Arquà poche ore prima del suo settantesimo compleanno.
Certamente padre dell’Umanesimo, in Petrarca c’è un rapporto strettamente diretto con i testi e questo lo si intuisce grazie alle sue annotazioni e ai suoi commenti ad essi. In Petrarca c’è un uomo che, cosciente di ciò che realmente è, si rapporta a Dio. In Petrarca c’è la ricerca dei classici e allo stesso tempo con Petrarca comincia la modernità. Il Petrarchismo, fenomeno letterario incentrato sull’imitazione della poesia petrarchesca, si fece strada sin dal Quattrocento in poi abbracciando tutto il Cinquecento, infatti uno dei grandi nomi della letteratura italiana, il cardinale e poeta Pietro Bembo, decretò la lirica petrarchesca, usata nel Canzoniere, quale modello linguistico da prendere in considerazione per scrivere cose intorno all’amore. In Petrarca, soprattutto con il Secretum (1347–1353), emergono prepotentemente elementi importantissimi come l’etica e la morale e per Petrarca l’umanista è colui che non solo parla di etica, ma soprattutto la mette in pratica.
Grazie a Petrarca, illustre scrittore laureato, abbiamo un’accurata cronaca napoletana di una notte d’autunno sul finire del medioevo che forse senza di lui sarebbe andata nell’oblio delle cose umane.