Il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto, avrebbe firmato un decreto che prevede di finanziare, nel triennio 2024-2026, la ricerca e lo sviluppo di “tecnologie energetiche innovative a zero emissioni di carbonio”. Tra i fondi destinati all’iniziativa, oltre cento milioni (135) sarebbero “dedicati al settore nucleare, prevedendo la realizzazione di attività di ricerca e sperimentazione sui piccoli reattori modulari di terza e quarta generazione nel breve-medio periodo e sulle tecnologie di fusione per il lungo periodo. In questo ambito – spiegano dal ministero – una quota delle risorse sarà utilizzata specificatamente per attività di formazione, con l’obiettivo di rafforzare le competenze professionali, tecniche e specialistiche in questo settore”.
Due i motivi che avrebbero dovuto destare sorpresa nei cittadini (e non solo). Il primo è che questa decisione di spendere centinaia di milioni di euro nella “ricerca e sperimentazione” di questi reattori nucleari non terrebbe conto del fallimento del progetto statunitense sui piccoli reattori modulari (SMR), realizzato da NuScale. “Con i nuovi reattori un po’ più piccoli cambierebbe tutto? L’abbiamo sentito ripetere ad ogni cambio di reattori a fissione”, ha dichiarato Edo Ronchi, già ministro dell’Ambiente. Basti pensare che “in Italia, dopo 13 anni dal decreto legislativo che lo ha deciso, non è stato localizzato un deposito per i rifiuti radioattivo. Quando sento parlare della costruzione in Italia di una decina di centrali nucleari ho l’impressione di discorsi astratti fatti da chi, invece di affrontare le scelte urgenti nel campo dell’energia da decarbonizzare che devono essere operative in pochi anni, perda tempo e sprechi soldi per sue nostalgie, comunque fuori tempo”, ha aggiunto.
Ma esiste un altro aspetto, non meno importante, che il ministro avrebbe dovuto considerare. Dopo il disastro di Chernobyl, si parlò molto di “nucleare”. Nel 1987, gli italiani vennero chiamati alle urne per esprimere il proprio giudizio sull’abrogazione di cinque norme delle quali tre riguardanti proprio il nucleare in Italia. Il quesito 3 riguardava l’abrogazione della facoltà del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) di deliberare sulla localizzazione delle centrali qualora gli enti locali interessati non avessero raggiunto un accordo a riguardo. La risposta degli italiani fu netta: il sì vinse con l’80,57% (gli italiani volevano abrogare quella norma). Il quesito 4 chiedeva l’abrogazione dei contributi agli enti locali che ospitassero sul proprio territorio centrali nucleari o a carbone: anche in questo caso i sì ebbero una maggioranza notevole: il 79,71%. Di poco inferiore ma pur sempre netta la decisione degli italiani di rispondere sì al quesito 5 che riguardava l’esclusione dell’Enel, all’epoca ente pubblico, dalla partecipazione alla costruzione di centrali nucleari all’estero. Anche in questo caso il sì vinse, con il 71,86% (i dati sul referendum sono disponibili allo storico elezioni del Dipartimento per gli Affari Interni e il Territorio).
Secondo alcuni i motivi che portarono gli italiani a votare così massicciamente per il sì e dire no al nucleare furono sia politici che legati al disastro di Chernobyl. Comunque, dopo il referendum, si decise di dismettere le centrali nucleari esistenti in Italia. Tra il 1987 e il 1990 le centrali rimaste attive furono fermate definitivamente. Ma ci vollero molti decenni e non sempre chiudere queste centrali è stato facile. “In Italia siamo ancora nella fase di disinstallazione delle quattro ex centrali di Trino, Caorso, Latina e Garigliano che non è ancora conclusa per le difficoltà nella gestione dei rifiuti e delle scorie in assenza di un deposito unico nazionale”, ha detto lo scorso anno Maurizio Pernice responsabile della sala operativa Cevad dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione.
Dopo il referendum del 1987 si parlò di nuovo di nucleare per un nuovo incidente, in Giappone a Fukushima. Un disastro ancora non del tutto risolto e che sembrava avere scritto la parola fine una volta per tutte sul quesito “Nucleari sì, Nucleare no”.
In realtà in Italia, più degli incidenti, a pesare sulla decisione sono state possibili conseguenze di questi “incidenti”. I dati forniti dal Chernobyl Forum (emanazione dell’Aiea) per le vittime del disastro sia a corto sia a lungo termine parlano di decine di decessi nei mesi successivi dei 237 gravemente irradiati fra i 400-1.000 lavoratori e pompieri che accorsero a spegnere l’incendio; 19 di questi ultimi morirono negli anni fra il 1987 e il 2005; 9 morti fra i 4.000 casi di tumore alla tiroide. A questi numeri, si devono però aggiungere i 9mila morti per tumori e leucemie che non è stato possibile registrare direttamente in osservazioni epidemiologiche. Nel 2005, l’OMS rivide questi dati e aumentò questi numeri: solo 4mila le persone ammalate di cancro tiroideo in conseguenza all’intossicazione da materiale radioattivo. Dopo Chernobyl, il Ministero della Sanità, su indicazioni dell’ENEA, proibì per mesi il consumo di verdure a foglia larga e, per i bambini fino a dieci anni e le donne in stato di gravidanza, il consumo di latte fresco. Ma questo non bastò a evitare le conseguenze della nube nucleare giunta fino in Italia.
Rilevanti i danni anche sotto il profilo economico. In Italia si registrò un’impennata dei prezzi degli ortaggi: in pochi giorni le quotazioni dei pomodori e delle patate registrarono aumenti superiori al 50-60 per cento. Per il latte il divieto di somministrazione alle fasce di consumatori ritenute a rischio provocò un blocco molto più generalizzato delle vendite di prodotto fresco.
A distanza di decenni dal disastro non è ancora possibile stilare un bilancio definitivo dei danni causati dal disastro di Chernobyl. Né da quello di Fukushima. O dalle decine, centinaia di incidenti minori che ogni anno si verificano nelle centrali nucleari. Tra i più rilevanti in Europa, quelli di Flerus in Belgio e Forsmark in Svezia nel 2006. O nel 2005, a Sellafield in UK. E molti altri “minori” dei quali i giornali non parlano mai, ma che da sempre destano preoccupazione nella popolazione locale. E nei governi.
Lo scorso anno si è parlato di pericoli legati al nucleare. Per due motivi. Il primo legato alla guerra in Ucraina. Il Ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha prospettato scenari preoccupanti legati ad una centrale che sarebbe potuta diventare bersaglio dei bombardamenti: “Se esplodesse Zaporizhzhia sarebbe dieci volte peggio di Chernobyl” (entrambe le centrali nucleari sono in Ucraina).
Ma non basta. A marzo 2022, il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio ha firmato l’adeguamento del piano Nazionale contro i rischi nucleari. “Nel nostro Paese ipotizzabile solo uno scenario simile a quello dell’86 con l’incidente di Chernobyl” ha detto Curcio per rassicurare tutti. “Nessun allarme, rifugi e iodio solo in caso di disastro entro i 200 chilometri”. (Sono previsti tre livelli di pericolo in base alla distanza dal luogo dell’incidente: il più grave è entro i duecento chilometri).
Una risposta che non tiene conto della possibilità, ora reale, di aprire nuove centrali nucleari in Italia. In questo caso, la distanza in caso di incidente potrebbe non bastare a proteggere i cittadini. Se si verificasse un incidente in una centrale nucleare come quelle che si vorrebbe costruire all’interno del territorio nazionale, il PIANO NAZIONALE PER LA GESTIONE DELLE EMERGENZE RADIOLOGICHE E NUCLEARI aggiornato proprio a marzo 2022 prevede una serie di misure di pronto intervento che coinvolgerebbero molti soggetti sia pubblici che privati. piano-nazionale-gestione-emergenze-radiologiche-nucleari-20220309-21_1.pdf (protezionecivile.gov.it) Il punto è: siamo certi che le autorità competenti sarebbero pronte a mettere in atto questi piani di emergenza?
Una domanda più che legittima visto quanto è successo con la pandemia da COVID 19. Nel 2020, i piani datati 2006 e riaggiornati in modo discutibile nel 2016, hanno mostrato gravi lacune e poca prontezza nella risposta o nella fornitura dei materiali e delle attrezzature per far fronte alle emergenze in modo completo. Nel caso della pandemia la risposta fu lenta e piena di buchi (a volte vere e proprie voragini) e impreparazione.
Ma nel caso di un incidente nucleare all’interno dei confini nazionali, questi ritardi non sarebbero ammessi. Le misure previste dal piano approvato quasi due anni non prevedono leggerezze o sbavature né tanto meno ritardi. Tutto dovrebbe essere pronto e attivo in pochi minuti dal momento del disastro. In caso di emergenza, il Piano prevede (Appendice 13) la iodoprofilassi da attuare in “meno di 24 ore prima e fino a due ore dopo l’inizio previsto dell’esposizione. Risulta ancora ragionevole somministrare lo iodio stabile fino a otto ore dopo l’inizio stimato dell’esposizione”. Ma solo “nel caso in cui sia disponibile lo iodio stabile, nella forma di compresse di ioduro di potassio (KI), da parte della Scorta strategica Nazionale Antidoti e Farmaci (SNAF) del Ministero della Salute. A sua volta, la messa a disposizione da parte della SNAF delle compresse di ioduro di potassio per la iodoprofilassi è subordinata alla verifica della fattibilità della distribuzione delle compresse alla popolazione; verifica che potrà essere sperimentata e valutata anche attraverso specifiche esercitazioni”. Chi assicurerà che si possibile raggiungere tutti i soggetti a cui somministrare lo iodio in tempi ragionevoli in caso di incedente nucleare? E chi assicurerà che le pasticche siano pronte e disponibili all’uso entro questo lasso di tempo? Ma questo è solo uno dei quesiti da chiarire.
Uno degli aspetti fondamentali dell’evoluzione è che l’uomo deve imparare dai propri errori. Chernobyl e Fukushima sono stati “errori” che sono costati la vita a decine di migliaia di persone. Non ha molto senso ripetere gli stessi errori. Specie considerando che esistono alternative molto più economiche e attuabili in tempi brevi. Per studiare, progettare e costruire una centrale nucleare ci vogliono molti anni. A volte decenni. Per utilizzare fonti energetiche pulite e sicure come il solare o l’eolico no: lo si può fare subito. E con un altro vantaggio: liberare i consumatori, i cittadini dalla dipendenza da enti “erogatori di energia”. Ma c’è un altro tema sul quale sarebbe opportuno investire: ridurre i consumi di energia. Ma anche questo non sembra interessare.
Solo tra un apio di giorni si apriranno i lavori della COP28. E il fatto che, come sede per i lavori, sia stato scelto uno dei apesi maggiori produttori di petrolio al mondo dovrebbe far capire molte cose.