Un film straordinario, premiato al Festival di Vancouver e al Festival del Cinema Africano d’Asia e America Latina, che allo spettatore italiano ricorda i tempi di opere immortali come Ladri di biciclette, Umberto D, Sciuscià e Miracolo a Milano, tempi di capolavori neorealistici con sceneggiatori che sapevano raccontare storie, semplici ma importanti, tempi per noi perduti, purtroppo. L’ultima luna di settembre racconta la storia di Tulgaa, un uomo che torna al paese natale in mezzo ai monti della Mongolia, dove non arriva neppure il segnale del cellulare, per accompagnare il padre morente verso l’ultimo viaggio. Tulgaa resta alcuni giorni tra le montagne per falciare un campo, conosce un ragazzino brillante di nome Tuntuulei – cresciuto dai nonni, senza padre, con la madre che lavora in città – e con lui intreccia una solida amicizia dai contenuti quasi paterni. Un film di pura poesia che narra tra sguardi e silenzi, con poche parole e dialoghi essenziali, la vicinanza spirituale tra Tulgaa – cresciuto da un padre adottivo – e il piccolo Tuntuulei, che avrebbe bisogno di un padre con cui andare a gareggiare nella lotta, a pescare, a cavalcare. Finale bellissimo e straziante, che non rivelo, ma che il regista (anche sceneggiatore) confeziona con grande senso del cinema e rispetto per lo spettatore, senza scadere in soluzioni da telenovela. L’ultima luna di settembre, che sta per arrivare, segna il giorno in cui la magica scintilla si spegnerà, perché Tulgaa dovrà far ritorno alle usate cose, a un lavoro in città, a una fidanzata lasciata ad aspettare con la quale ha ancora un conto da saldare. Paesaggi sconfinati e incantevoli di una Mongolia sperduta che contrastano con le sporadiche immagini di anonime città industriali, tradizioni ancestrali e cibi preparati artigianalmente che rendono l’immagine di un mondo naturale perduto. Strepitosa la sequenza della costruzione di una torre di legno (idea del ragazzino) per captare il segnale e poter telefonare quando si presenta la necessità, anche se Tuntuulei si rende conto che il lavoro della madre non lascia il tempo neppure per un rapido collegamento telefonico. Lo spettatore si trova immerso in un mondo fatto di grandi praterie dove pascolano pecore e scalpitano cavalli, al punto che dopo la parola fine quel che resta impresso è l’incanto (di avatiana memoria) di immagini lontanissime nel tempo e nello spazio e di un sentimento paterno unito all’amore di un figlio bisognoso di affetto. L’ultima luna di settembre rappresenterà (con buone possibilità di vittoria) la Mongolia ai Premi Oscar 2023, anche se è il primo lungometraggio del regista, tra l’altro interprete principale (convincente) della storia, tratta dal racconto Tuntuulei di T. Bum-Erdéné. Tra i pregi del film la recitazione senza sbavature di un cast davvero all’altezza, con il piccolo Garamhand Ténuun-Erdéné davvero bravo nei complessi panni di Tuntuulei. Fotografia nitida e solare di una Mongolia sperduta tra monti e praterie. Montaggio compassato ma dai tempi giusti. Tecnica di regia essenziale con un autore che non cerca mai di mostrare una bravura fine a se stessa. Un piccolo gioiello prodotto da una giovane cinematografia che ha molto da insegnare a un cinema italiano che ha perso la strada del puro racconto, della narrazione di storie capaci di emozionare.
Regia: Amarsaikhan Baljinnyam. Soggetto: liberamente tratto dal racconto di T. Bum-Erdéné. Sceneggiatura: Amarsaikhan Baljinnyam, Balzinnam Amarsaihan. Fotografia: Josua Fisher. Montaggio: Batsuh Baarsajkan. Musiche: Odbaar Battogtoh. Scenografia e Costumi: Bolor-Erdéné Najdannyam. Produttore: Uran Sainbileg. Casa di Produzione: Ifi Production. Distribuzione (Italia): Officine Ubu. Titolo Originale: Ėrgėž irėhgüj namar. Lingua Originale: Mongolo. Anno: 2022. Durata: 90’. Genere: Drammatico. Interpreti: Amarsaikhan Baljinnyam (Tulgaa), Garamhand Ténuun- Erdéné (Tuntuulei), Sovd Damdin (Ambaa), Davaasamba Sarav (Nonno), Cerendarizav Dasnam (Nonna).