Leggo di vere e proprie idiozie in merito al concetto di “vittima in un reato” contro la persona quale la violenza sessuale. Leggo che la vittima è “presunta” e che deve dimostrare di esserlo: una emerita sciocchezza. Leggo che la vittima può essere deliberatamente sottoposta ad una sequela di domande che la violano nel proprio intimo e la fanno sentire “complice” dei suoi carnefici: una tortura. Leggo che è bravo quel legale che usa questi metodi, mentre è
deprecabile il legale della vittima che chiede le tutele normative per l’assistita/assistito (magari è pure “complice” della
vittima). Tutto ciò, non considera che come esistono i diritti di difesa degli indagati/imputati, esistono i diritti delle vittime, in particolare, delle vittime di reati a sfondo sessuale. Si usa il termine vittima che è derivato ed indicato dalla
Convenzione di Istanbul e che è cosa diversa dal concetto di persona offesa (titolare del bene protetto dalla norma penale violata con il comportamento anti-giuridico).
La vittima è colei (uomo o donna) che ha subito il fatto storico (la violenza) sul proprio corpo e che ha subito l’atto anti- giuridico non solo come fatto giuridico, ma come fatto storico. La vittima è colei (o colui) che porta sul corpo l’agire o il non agire (in presenza di un dover agire) del soggetto attivo del reato. La vittima è vittima in presenza ad un fatto violento a sfondo
sessuale sulla persona. La vittima è vittima nel processo e non deve essere dimostrato nel processo di essere vittima (chi sostiene il contrario mistifica la realtà). Una simile asserzione è una aberrazione del ragionamento, è una forzatura logica, è una idiozia che non si può sentire. La vittima è tale e come tale deve esser tutelata la sua persona nel processo proprio perché portatrice di diritti e di interessi. La vittima in reati sessuali non può essere violata con domande che attengono alla propria vita privata o alla propria vita sessuale; è una tortura aberrante che il giudicante deve impedire. La vittima, come l’imputato indagato, è soggetto portatore di diritti nel processo ed il primo diritto che deve essere rispettato è proprio quello di non essere giudicata per quello che è come persona, ma per i fatti accaduti nei suoi confronti.
Non si deve confondere il diritto della vittima ad essere riconosciuta come tale con il concetto di attendibilità della stessa che è argomento ontologicamente diverso. Vi sono dei limiti logico-etici e culturali che devono essere rispettati, altrimenti si commette una ulteriore violenza da parte dell’esaminatore e di chi autorizza un certo tipo di domande; si compie una vittimizzazione di secondo grado, una nuova ed ulteriore violenza. La domanda che va a ripercorrere i fatti deve avere una natura neutra e rispettare il vissuto della vittima che (e dovrebbero saperlo i giudici) mentre riferisce sta rivivendo, di qui le sue
possibili debolezze ed incertezze. La vittima di uno stupro è peraltro in taluni casi in bilico tra accusare e non accusare poiché lo stupro (o anche peggio) è, in realtà, un atto “partecipativo della vittima” che nella sua mente non si spiega perché a lei e perché non sia riuscita a vincere la violenza che le veniva fatta. Vi è un grande senso di colpa in uno stupro che si ingigantisce a dismisura quanto questo accade tra le mura domestiche.
Non capire questo vuol dire non comprendere l’umanità che è in tali reati più che in altri e ci si deve porre una domanda sul ruolo che si riveste sia esso di magistrato sia esso di avvocato. L’umanità e la psicologia di certi eventi va compresa e non compressa (sino all’annullamento in certi casi). Non si è bravi se si fanno 1400 domande perché un bravo avvocato, veramente, con una decina misura l’attendibilità dell’esaminato, ma si è, invece, parte di un sistema che tortura le vittime. Non si è bravi se si ottiene che la vittima sia sentita in totale protezione e lontano dal suo aggressore, ma si è parte di un sistema che non ha compreso come si forma la prova dichiarativa in tali casi e non si vuole comprendere. Non si è bravi giudici se si permettono 1400 domande e si fa anche rivedere il filmato di quanto accaduto alla vittima, ma si è parte di un sistema che sgretola la vittima e sgretola fino a fare scomparire la verità.
La prova non si forma con l’intimidazione delle domande truculente e che fanno ripercorrere il dramma vissuto, ma con domande che vanno ad ancorare a fatti oggettivi la prova testimoniale della vittima ricordando quanto la giurisprudenza di Cassazione ha insegnato con numerose sentenze in cui tratta il valore probatorio delle dichiarazioni della vittima in
reati contro la persona come la violenza sessuale in senso lato (ed altri di simile natura). Non vi può essere una mistificazione di ciò e non si può confondere la attendibilità della vittima con l’aggressione perpetrata in aula alla vittima stessa. I diritti dell’imputato/indagato sono ancora più esaltati nella formazione di un prova dichiarativa della vittima rispettosa di
canoni e principi sopra detti. Non si può e non si deve entrare nella vita di una persona per “giustificare” una violenza. La violenza va compresa se c’è stata e da parte di chi, ma senza, con ciò, denigrare ed avvilire la vittima della violenza
con affermazioni sulla sua vita privata. A nessuno verrebbe in mente di chiedere alla persona offesa di un reato di furto d’auto perché avesse parcheggiato in un certo luogo malfamato la propria autovettura. Quindi, non può essere chiesto alla vittima di uno stupro perché aveva una minigonna o perché è passata di lì o perché è andata a quella festa e, magari, ha bevuto alcolici.
Il diritto di portare una minigonna è pari a quello di parcheggiare la propria auto in un luogo in cui la vettura può essere rubata.
Non si può (e non si deve, da avvocati) spostare l’obiettivo del reato alla vittima del reato cercando di fare passare come “complice” la vittima stessa; è deontologicamente scorretto e sanzionabile. Una donna (ma anche un uomo) deve essere libera/o di avere rapporti sessuali con chiunque nella libertà e nella autonomia e quando ella o egli dice che non si va oltre, non si deve andare oltre. Principio tanto semplice quanto inascoltato nella aule di giustizia. Se si va oltre è violenza sessuale sempre e comunque e può (e deve) bastare la dichiarazione della vittima, visto che eventuali soggetti presenti non sarebbero testi, ma complici (art. 110 c.p.). Il tema è molto rilevante perché se non si comprende cosa sia la vittimizzazione di secondo grado e si banalizza dicendo che non vi può essere una vittima prima del processo è come sostenere che non c’è un imputato prima del processo.
Vittima ed imputato sono figure necessarie nel processo e lo sono a se stanti; il processo è accertamento, è verifica e, quindi, è verità giuridica di un fatto e della sua sussunzione in una norma penale e, quindi, è ricerca di una responsabilità individuale. Il processo serve ad accertare la sussistenza del fatto storico e la eventuale responsabilità dell’imputato. Ma non si può dubitare il fatto in se, si deve accertare e siccome è inserito in una accusa: il fatto storico è in se. Occorre, ovviamente, valutare la sua fondatezza e la sua attribuibilità oggettiva e soggettiva all’imputato. La vittima è tale in quanto portatrice di fonti di prova ed è essa stessa prova (come recita la Suprema Corte di Cassazione). La vittima può mentire? Certo che può ed il processo è lo strumento atto ad accertarlo, ma nel rispetto dei diritti delle vittime, non in violazione degli stessi; non con una “vittimizzazione” della persona che ha subito il reato. In molti sostengono – ed io con loro – che occorra un salto culturale, ma sarebbe stato vitale anche un vero e proprio sistema di regole di formazione della prova che, nel nostro sistema, non esistono.