Ormai non è raro trovare sulle etichette di alcuni prodotti diciture come a “Emissioni zero”, a “CO2 zero”, “Emissioni di CO2 e -70%” o “Carbon neutral”. La verità è che quasi sempre si tratta di quelli che in termine tecnico sono i cosiddetti “carbon claim”, dichiarazioni non sempre vere e che molto spesso nascondono una deformazione dell’informazione dei consumatori.
La “carbon footprint” indica la quantità (in kg) di anidride carbonica emessa nell’atmosfera da un servizio, un’organizzazione o un prodotto, sia direttamente che indirettamente e in tutto il suo ciclo di vita. A scanso di equivoci è bene fare subito una precisazione: la CO2, l’anidride carbonica non solo è normale che sia presente nell’atmosfera, è anzi fondamentale. Ad essere dannosa è quella in eccesso. Quella che rischia di alterare gli equilibri naturali. Quella che deriva da comportamenti antropici sbagliati e che, quindi, sarebbe evitabile.
Per comprendere quanto effettivamente un prodotto, ad esempio un prodotto alimentare, impatta sull’ambiente è bene approfondire il concetto di “carbon footprint” (impronta di carbonio). Questo indicatore produce una stima della quantità di gas serra che immettiamo nell’ambiente quando utilizziamo un bene o “consumiamo” un certo prodotto. Sì, perché anche se non se ne parla mai, il settore alimentare è tra quelli più inquinanti da questo punto di vista: secondo l’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU) rappresenta ben il 37% delle emissioni di gas serra di cui è responsabile l’uomo.
Appare evidente quindi che è importante conoscere quali prodotti producono più CO2 e se davvero sono necessari o se sono solo frutto di mode “sbagliate”. E in questo il settore alimentare è esemplare. Da molti anni i ricercatori continuano a dire che certe mode o abitudini alimentari sono sbagliate. Non solo dal punto di vista alimentare, ma anche per l’impatto che hanno sull’ambiente. Ad esempio, la dieta mediterranea (non è un caso se è stata dichiarata Patrimonio immateriale dell’Umanità dall’Unesco) è molto più rispettosa dell’ambiente della dieta oggi di moda, basata su un consumo eccessivo di carni. Soprattutto di carni rosse: le peggiori dal punto di vista ambientale. Ad esempio, in base ai calcoli di uno studio sui prodotti alimentari sviluppato da una associazione in Svizzera, un cheesburger ha un impatto climatico tre volte superiore a un risotto con zucca e funghi (naturalmente a parità di apporto alimentare). Anche la dalla Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana (SSNV) è giunta a risultati simili. MioEcoMenu, il nuovo sito lanciato dalla SSNV consente di effettuare calcoli dai quali risulta che, per ridurre l’impatto di quello che mangiamo sull’ambiente, basterebbe scegliere quanto più possibile prodotti di origine vegetale, come cereali, frutta, verdura, legumi e frutta secca.
A risultati analoghi era giunta la Fondazione Barilla diversi anni fa. I ricercatori della Fondazione Barilla avevano proposto di associare agli alimenti una doppia piramide che mostrava, da un lato, l’impatto degli alimenti sull’ambiente e, dall’altro, la quantità di cibo da consumare, da inserire nella nostra dieta. Doppia Piramide – Fondazione Barilla. Al vertice della prima piramide ci sono proprio le carni rosse, i formaggi e gli alimenti ad alto contenuto glicemico: sarebbero questi gli alimenti che hanno il maggiore impatto sull’ambiente e che, quindi, andrebbero ridotti se non cancellati del tutto dalla dieta. Alla base della piramide, al contrario ci sono verdure, frutta fresca e alimenti integrali (quelli veri, non quelli fatti con farine raffinate alle quali viene aggiunta della crusca per “sembrare” integrali): sono questi gli alimenti che hanno un impatto minore sull’ambiente. Prima di tutto come emissioni di CO2 ma anche come consumo di acqua virtuale.
Come si diceva, il settore alimentare è uno dei principali responsabili delle emissioni di gas serra. Secondo la commissione europea, il settore alimentare contribuisce per almeno un terzo alle emissioni globali di gas serra. A seconda del Paese, in UE questa quota si attesta tra il 25% e il 42%. Per questo anche l’Unione Europea ha cercato di proporre soluzioni per limitarne gli effetti negativi. Una di queste è quella di introdurre etichette sui cibi per indicarne la sostenibilità (o in altre parole, l’impatto che hanno sull’ambiente) e permettere così ai consumatori di compiere scelte maggiormente informate. Una scelta saggia ma che si scontra con una realtà diversa: quanti sono i consumatori che sanno che non sono solo auto e moto le principali responsabili delle emissioni di CO2 e che uno dei settori più inquinanti è quello dell’alimentazione sbagliata?
Al momento, sono già diversi i prodotti alimentari sulle cui etichette viene indicato se l’alimento in questione è stato prodotto secondo certi standard. Etichette, chiamate anche “etichette singole”, che potrebbero aiutare i consumatori a scegliere in modo consapevole e rispettosa per l’ambiente. Purtroppo, spesso di tratta di indicazioni limitate: forniscono informazioni su un singolo aspetto del processo produttivo. In altri casi, sono veri e propri strumenti di marketing realizzati dalle aziende produttrici (e quindi non sempre attendibili o trasparenti).
A mancare sono due cose. Prima di tutto delle regole per imporre queste analisi in modo indipendente e accurato. Una recente ricerca dell’università di Oxford dimostra infatti che le etichette possono effettivamente influenzare le decisioni dei consumatori e persuaderli a scegliere i cibi meno inquinanti. E poi campagne di informazione e sensibilizzazione dei consumatori. Entrambi strumenti indispensabili per ridurre le emissioni legate al settore alimentare.
La realtà è completamente diversa: alzi la mano chi ha mai sentito parlare della strategia Farm to fork lanciata da anni dall’UE? Eppure, questa forma di “Km0” è parte dello European green deal. O dell’introduzione del “Nutri-score“, che classificherebbe gli alimenti secondo le loro qualità nutrizionali. O del programma “Enviroscore” che pure esiste già da oltre tre anni. Secondo uno studio del 2020, più della metà della popolazione europea vorrebbe avere un’idea più chiara dell’impatto ambientale dei cibi che consuma. Dati come quelli diffusi dall’European Data Journalism network. Numeri che dicono che tra gli alimenti maggiori responsabili delle emissioni inquinati ci sono il manzo, seguito dall’agnello e dal formaggio (che, in buona parte, si produce con latte vaccino). Anche il cioccolato, con 18,7kg di CO2 equivalente al chilo, avrebbe un impatto non indifferente sulle emissioni di gas serra. Ma gli scaffali dei supermercati sono stracolmi di questi prodotti. E nessuno dice che, sia sulla carne bovina che sulla cioccolata, una quota consistente delle emissioni è dovuta alla conversione del suolo agricolo, modificato e destinato a pascolo o a piantagione di cacao o alla fase di allevamento che ha un impatto significativo sulle emissioni totali di CO2.
Per un motivo o per l’altro, o perché poco informata o perché influenzata da politiche commerciali errate e cattive abitudini alimentari, la maggior parte dei consumatori finisce per non fermarsi davanti alla “fettina” o alla merendina al cioccolato. E così facendo finisce per causare sull’ambiente danni maggiori di quanto immagina. Secondo alcune ricerche, in UE l’80% delle emissioni di gas serra causate dal consumo di cibo provengono da alimenti di origine animale. Ma in Paesi come Italia, Lituania, Repubblica Ceca e Grecia, questa percentuale arriva fino all’85%. In Italia, il 57,23% delle emissioni dovute all’alimentazione riguardano carne e uova, mentre un ulteriore 27,78% è dovuto ai latticini. Al contrario alimenti più sani (e tipici della dieta Mediterranea, come frutta e verdura, pesano sull’ambiente solo per il 2,85%: alimenti che oltre a far bene alla linea e alla salute, fanno bene anche al pianeta.
Eppure, per questi alimenti nessuno impone classi di emissioni o limiti al consumo e all’utilizzo. Come per auto e moto.