Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Quest’anno, in occasione del Dantedì – giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, approvata il 17 gennaio 2020, che corrisponde al giorno del 1300 in cui, secondo una certa letteratura, Dante si perde nella “selva oscura”, dando inizio al suo viaggio nei tre luoghi dell’oltretomba – vorrei onorare la memoria del Sommo concentrandomi sul canto XIII del Purgatorio che è molto importante perché è qui che il lettore della Commedia capisce dove andrà a finire l’anima del Poeta dopo la sua morte.
Tutti sappiamo che Dante ha distribuito nelle tre Cantiche le anime dei trapassati – alcuni dei suoi parenti; amici; nemici; politici; ecclesiastici; figure mitologiche; imperatori; storici; santi; beati; martiri; angeli; Maria Vergine; Cristo ed altri ancora – ma quanti di noi si sono veramente chiesti dove Egli avrebbe collocato la sua anima dopo la sua dipartita.
Innanzitutto va fatta una precisazione sul carattere del Sommo Poeta, va detto chiaramente che Dante non aveva proprio un carattere dolce e questo emerge dalle numerose biografie prese da me medesimo in considerazione. Dante, nonostante fosse figlio del suo tempo, era rispettoso delle donne; molto devoto a Santa Lucia e non bigotto a differenza di altri uomini, ma appariva anche arrogante, saccente, insofferente, altezzoso, sprezzante e presuntuoso, solitario e schifiltoso, poco avvezzo allo scherzo, credeva con superbia di essere un profeta con il particolare compito di mettere l’umanità sulla retta via. Per usare una frase a noi, uomini di questi tempi, più familiare, proferita dell’eccellente dantista professor Aldo Onorati, aveva proprio la “puzza sotto al naso”. Si pensi, per esempio, che Dante evitava di parlare con gli incolti; diventava furioso quando si discuteva di politica e addirittura “Pare che fosse noto… che, se udiva una femminella… sparlare dei Ghibellini, montava in un tale stato di collera che … li avrebbe presi a pietrate”.
Chiariti i suoi aspetti caratteriali, possiamo viaggiare insieme in due dei tre luoghi dell’oltretomba: l’Inferno e il Purgatorio. Già all’Inferno troviamo un primo accenno che risponde all’iniziale domanda di questo breve articolo: dove è finita l’anima di Dante dopo la sua morte?
Canto III della prima Cantica: Dante e la sua guida Virgilio incontrano Caronte, famoso traghettatore delle anime dannate, il quale grida:
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti…
Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti.
Con queste parole egli gli dice che, dopo la sua morte, non sarebbe stata quella l’imbarcazione che avrebbe dovuto prendere, ma un’altra, una più leggera (più lieve legno convien che ti porti), e non questa che pesava troppo per le anime dannate destinate, invece, alla pena eterna. Pertanto, già da questi primi versi, si capisce bene che l’anima del Poeta non è destinato all’Inferno. Dove allora? Su quale imbarcazione sarebbe salito? Di che cosa parla Caronte? Andiamo avanti e facciamo un salto fino al Canto II del Purgatorio:
Vedi che sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l’ali sue, tra liti sì lontani.
Qui viene citato un altro vascello molto diverso da quello condotto da Caronte. Infatti stavolta il nocchiere è un angelo che conduce, tenendo le ali alte verso il cielo, senza remi né vele (sì che remo non vuol, né altro velo che l’ali sue), le anime dei peccatori che intonano ad una voce “In exitu Israel de Aegytpo”, incipit del salmo 113 anticamente cantato mentre un defunto veniva portato, durante il suo ultimo viaggio, nel luogo sacro del seppellimento, simbolo del mistico itinerario dei cristiani. È questa sopra descritta, allora, l’imbarcazione preannunciata da Caronte: più leggera perché trasporta i peccatori che avranno la possibilità di purgarsi. Proprio qui, dopo la morte, si sarebbe imbarcato il Poeta diretto evidentemente in Purgatorio. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: in quale cornice di preciso? Andiamo avanti e citiamo il Canto XI, cornice dei superbi, i quali camminano con un masso pesantissimo sulla schiena che, per la Legge del Contrappasso e per forza di cose, sono obbligati a guardare a terra, contrariamente di quanto abbiano fatto in vita. Qui leggiamo: “A me che tutto chin con loro andava” dal momento che Dante sente su di sé il peso del masso, pertanto cammina proprio come gli abitanti di quel luogo: chino in avanti come se avesse difatti quel pesantissimo carico sulla schiena.
Nel XIII Canto Dante incontra l’anima dell’invidiosa Sapìa, gentildonna senese del XIII secolo e moglie di Ghinibaldo Saracini, che si presenta con le palpebre degli occhi cucite. Alla richiesta di presentazione del Poeta, la donna si fa avanti e, tra altre cose, gli chiede chi è dal momento che è un vivo tra i morti. Il Poeta le risponde con queste parole:
Li occhi», diss’io, «mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l’offesa
fatta per esser con invidia vòlti.
Troppa è più la paura ond’è sospesa
l’anima mia del tormento di sotto,
che già lo ‘ncarco di là giù mi pesa”.
Da questa sua risposta si capisce chiaramente che Dante è cosciente del fatto che, una volta passato a miglior vita, sarebbe stato per poco tempo tra gli invidiosi, non avendo assai peccato di invidia (Li occhi», diss’io, «mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, ché poca è l’offesa fatta per esser con invidia vòlti) e sente chiaramente che la sua anima andrà tra i superbi, avendo già percepito, nella cornice antecedente (del tormento di sotto), il peso del masso sulla schiena, senza avercelo realmente, col suo effetto immediato.
In conclusione possiamo immaginare che, quando Durante Alighieri ha chiuso per sempre gli occhi a questo mondo, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna, la sua anima sia andata tra i superbi del Purgatorio. Una pena che sarebbe durata 300 anni come, più avanti, verrà rivelato da Natuzza Evolo, mistica calabrese del XX secolo, che, in uno dei suoi miracolosi viaggi in Paradiso, incontra proprio il Poeta, il quale le avrebbe detto di aver scontato, prima di arrivare alla Beatitudine, una pena lunga tre secoli terrestri in Purgatorio a causa del fatto che nella Commedia aveva superbamente giudicato chi secondo lui era meritevole e chi no.
“Non è una cosa da poco che un genio di quel genere, che addirittura si sente predestinato a riformare l’umanità, riconosca il suo limite, che è quello della superbia”, dice magistralmente il professor Aldo Onorati.