L’attrice Behnaz Jafari e il regista Jafar Panahi ricevono un video girato con un telefonino che riprende una ragazzina – che vive in un villaggio sperduto tra le montagne del nord-ovest iraniano – mentre sta per suicidarsi in una grotta. La ragazza vorrebbe fare l’attrice, ha superato l’esame di ammissione all’Accademia, ma la famiglia non le consente di andare a Teheran e gli abitanti del villaggio la ritengono una testa vuota che non sa essere una vera donna. Attrice e regista partono in auto per verificare cosa sia realmente successo, incontrano persone di campagna, allevatori di pecore, semplici paesani con la testa piena di superstizioni e pregiudizi. Molta suspense per tutta la prima parte, durante il viaggio tra montagne impervie e territorio bruciato dal sole, con la preoccupazione palpabile soprattutto da parte della donna, che sfocia in rabbia quando al paese viene ritrovata la ragazza. In un primo tempo la reazione sarebbe di lasciare la futura attrice al suo destino, poi i due ci ripensano e decidono di portarla a Teheran. La ragazza è ricorsa all’ultimo estremo tentativo per fuggire da una realtà che la costringeva a rinunciare a sogni e passioni, tutto per dire quanto sia difficile vivere in un paese arretrato e privato di ogni libertà dal regime dominante. Avevo già visto Taxi Teheran (2015), sempre con il regista attore principale (nel ruolo del tassista), in questo nuovo lavoro lascia la parte più importante a Behnaz Jafari (se stessa) che decide sul futuro della ragazza mentre il regista conversa con la popolazione e si aggira per i luoghi dimenticati da Dio incuriosito da quel che accade intorno. Jafar Panahi è un regista vero (e pericoloso alla Guy Debord) che di solito fa come gli pare, non come gli dicono di fare, ama occuparsi delle sorti degli umili, dei poveri, delle donne e affronta il disagio dei più piccoli. Ogni film è una sorta di inchiesta, un’indagine su determinate usanze e credenze, sull’ansia di fuga per chi vorrebbe essere libero, sul modo di vivere del suo paese. Non ha vita facile in Iran, dove il regime gli vieta di concedere interviste e rende complicata la realizzazione di pellicole; spesso arrestato e scarcerato, gira con mezzi di fortuna e senza permessi, in piena clandestinità, la maggior parte dei film ambientati nella terra natale. Tre volti (Trois Visages, titolo originale) si basa su tre personaggi principali, la ragazzina è Marziyeh Rezaei, interprete di se stessa e del suo difficile rapporto con i compaesani con la famiglia di origine. La narrazione, pacata e dai tempi compassati, fa capire – grazie a dialoghi verbosi ma non inutili – quanto sia difficile la vita di una donna in Iran e come sia arretrata la vita nei paesi montuosi della zona interna, lontani dalla capitale. Girato quasi tutto in soggettiva, secondo l’ottica dei due attori principali, spesso con la macchina a mano, ricorrendo a frequenti primi e primissimi piani. Pochissime le panoramiche, il regista preferisce il campo stretto, la camera fissa sul dialogo, con rari campi e controcampi per analizzare i pensieri di chi parla. Storia piccola, che si racconta in poche righe, ma sceneggiata con cura (premiata a Cannes) da Jafar Panahi e Nader Saeivar. Una perla del cinema iraniano vista grazie a Rai 5 che trasmette pellicole di pregio senza interruzioni pubblicitarie.
Regia: Jafar Panahi. Soggetto: Jafar Panahi. Sceneggiatura. Jafar Panahi, Nader Saeivar. Fotografia: Amin Jafari. Montaggio: Mastaneh Mohajer, Panah Panahi. Scenografia: Leila Naghdi Pari. Distribuzione (Italia): Cinema. Titolo Originale: Trois Visages. Paese di Produzione: Iran, 2018. Durata: 100’. Genere: Drammatico. Interpreti:Behnaz Jafari (se stessa), Jafar Panahi (se stesso), Marziyeh Rezaei (se stessa), Maedeh Erteghaei (se stessa), Narges Delaram (la madre).