Le avventure di Pierino al mercato di Luino edito da Mondadori nel 1980, sottrassero l’ormai famoso Piero Chiara, per un po’ di tempo, alla molesta dinamica, del tutto involontaria, che si era innescata ex abrupto nel suo rapporto tra prosa e cinema, o, per essere maggiormente specifici, tra prosa e sceneggiatura cinematografica, benché l’autore non ne fosse minimamente responsabile o comunque non cercasse di stabilire una plasticità narrativa che garantiva la docile trasposizione di un’arte nell’altra. Si rimproverava a Chiara che scrivesse in funzione del cinema e che dunque abbandonasse il connubio arte-letteratura in favore di una venalità, eticamente lontana dai canoni del tempo. E pensare che oggi, date le numerose trasposizioni televisive, verrebbe da pensare che si scrive più con un intento cinematografico che letterario, anzi, a volte non si pone nemmeno il problema dell’adattamento alle pellicole.
Tralasciando questi lambiccamenti ritengo che il successo della prosa del narratore luinese, poco interessata al transito verso un humus socio-intellettuale distante dalla letteratura intesa come emanazione della vita, si possa attribuire alla spiccata capacità del narratore luinese di rendere scorci di vita intensi tra le pagine di carta, e di trattare con naturalezza il lento scorrere del tempo, mischiato al ricordo, inteso come recupero di una pre-coscienza, o di un’incoscienza, se si vuole, anteriore all’esperienza della vita: in fondo il narratore anonimo ne La stanza del vescovo prima di conoscere l’Orimbelli altri non è che un ozioso avventore lacustre. Inoltre, quantunque altri narratori attraversino i fasti di una nuova sperimentazione letteraria (Calvino, Arbasino e il Gruppo 63), le pagine di Chiara si presentano senza quell’inconsueta manomissione narrativa, manifestando un forte legame con l’oralità e la lingua parlata che rimane fedele alla riproposizione del microcosmo delle piccole storie di provincia, campionario della grande Storia umana.
A proposito di ciò, la scuola per Piero Chiara non ha rappresentato una parentesi felice né piacevole da ricordare per la completa scollatura dell’alunno dalla prassi didattica. Pare che rientri tra le cause principali un’esperienza che lo stesso romanziere luinese chiama un evento nefasto protrattosi dalla malavoglia e dalla malinconia che infastidivano un bambino pronto a far incetta di stimoli diversi e, al tempo stesso contrari a qualsiasi ordinarietà scolastica, come il perenne bisogno di un contatto vitalistico con il mondo circostante, fatto di riti proibiti, di violazioni volontarie o d’altri momenti, di fasi di passaggio che segnano l’ingresso verso mondi più grandi, più alti, più sensibili e più rischiosi pertanto di finire in quel trituratore di empatia che è stata la scuola tardo ottocentesca e di inizio secolo scorso. Le avventure di Pierino al mercato di Luino testimoniano l’eco di queste esperienze maturate lungo gli anni della scuola primaria e inframezzate da trasferimenti continui nei collegi disseminati nella zona del lago Maggiore chiusa tra le due sponde: piemontese e lombarda.
Uno dei racconti più divertenti tratti dall’opera è un brano, ampiamente antologizzato negli anni ‘70-‘80, dal titolo La pagella. In esso notiamo la rievocazione di un triste – quanto disonorevole – ricordo, legato alla prima carriera scolastica dell’autore. La ieratica morte del padre (per usare le parole dello stesso romanziere “l’anguilla che con improvvidi colpi aveva risalito la foce dall’aspra e polverosa Sicilia centrale verso il nord Italia”) passato a miglior vita alla veneranda età di 96 anni, ha lasciato in eredità, nella casa da lui precedentemente abitata, una quantità di chincaglierie affastellate in maniera confusa, tra le quali una cassa contenente documenti e carte di vario tipo, scoperte dal nuovo occupante, che, grazie all’aiuto del figlio, ritrova una pagella scolastica del piccolo Piero.
Ricevuto il cadeaux, all’iniziale proposito di distruggere il relitto appena ripescato dal passato, il flusso narrativo è interrotto da un flashback che apre l’affascinante ricordo alla maniera chiariana, cioè recuperando il fatto imbalsamato con il soffio dell’oralità: “Ero, nell’anno di quella pagella, ripetente di terza elementare e recidivo nei quattro, nei tre e negli zero, per una specie di ostinazione a non capire e a non fare, che mi aveva preso come una malattia”… . Il termine malattia dovrebbe far riflettere ed essere considerato un dato indiziario della ribellione rumorosa di un bambino alieno alla rigidità imperante del tempo. Ironica è la figura del padre che, come successivamente l’autore stesso avrà modo di scrivere a più riprese, ogni qual volta si presentava l’odor della bocciatura era pronto a giurare, da buon siciliano con la mano sul petto, l’iscrizione del figlio presso un altro istituto, a patto di una promozione.
Nella preziosa rievocazione del ricordo l’autore racconta l’esame finale che dovette affrontare con la presenza della commissione della classe terza. Il maestro cercando una sottile umiliazione e prefigurando una futura attività nel negozio di cappelli della madre pone il seguente quesito: “Tuo zio compera dieci cappelli a dieci lire l’uno. Se vuole guadagnare in tutto venti lire, a quanto deve vendere ciascun cappello?”. All’esitazione dell’alunno di fronte al quesito e allo scorno del maestro ne segue un’ulteriore semplificazione: “Se tuo zio compra un cappello per dieci lire, a quanto deve venderlo per guadagnare due lire?” che sortisce il medesimo silenzio di prima. Ed ecco che, fedele al motto latino in cauda venenum, il piccolo Piero combina l’ennesima delle sue marachelle, svuotando la propria vescica verso la porta chiusa della classe. Il colpo di genio arriva quando, proprio in virtù dell’espletamento del bisogno, la foschia del quesito si dipana e, scaraventato l’uscio della porta all’apertura, lo scolaro proferisce la soluzione, mentre rivoli di urina corrono come uno stretto rigagnolo verso la commissione riunita.
Da un dettaglio un ricordo, da un ricordo la vita, dalla vita un insegnamento. È così che si potrebbe riassumere l’intera prosa di Chiara. Pertanto, l’alunno di ieri, che l’autore dice di non poter ritrovare perché effimero e sfuggevole a farsi rapire dallo sguardo dell’uomo di oggi, non è più prigioniero dell’onta vergognosa di un fastidio umiliante, ma trova la pace, preservando il ricordo che scampa alle fiamme della distruzione e dell’oblio.
Di quella pagella di terza elementare che sopravvive, ritroviamo una nobile catarsi: non più macchia, ma fraterna carezza, un surrogato di empatia, una stilla di comprensione. Grazie a questa fortuita scoperta quel bambino, futuro narratore a cui la sorte tributò il dono di scrivere, ritrova un “compagno” che ha avuto la fortuna di capire quanto non sia scontata la nostra esperienza umana e che la fonte del disagio può essere superata prima (ne beneficiano i tempi futuri e gli studenti oggi, con un eccessivo candore empatico), e dopo, rendendo la letteratura emanazione della vita.