Tutti i manuali di cartografia riportano che le prime rappresentazioni del mondo furono quelle concepite dai Greci e dopo, nel corso del tempo, con la nascita di un rapporto uomo-spazio, il mondo si fece “di carta” diventando spazio rappresentativo di un’idea di terra circondata dall’anello marino dell’Oceano, oltre al quale stazionavano le colonne d’Ercole a Occidente e le terre dei Colchi a Oriente. Lo spazio creato divenne un continuo dialogo di culture e di merci all’interno del grande lago del Mediterraneo per citare Fernand Braudel.
Per Salgàri, venuto alla luce migliaia di secoli dopo, il mondo è uno spazio umano da perlustrare attraverso la conoscenza geografica, che apre vie e innumerevoli scorciatoie, a volte anche sotterranee; e non c’è altra soluzione di farlo a seconda dei mezzi a disposizione forniti dal sapere enciclopedico e dalla conoscenza del tempo storico, non solo puramente evenemenziale, ma soprattutto umano, se non addirittura intimo. Ritroviamo così nei romanzi e nei racconti d’avventura salgariani un’esaustiva completezza di informazioni che compongono pienamente la cultura ottocentesca che si affacciava, per la prima volta, alla definizione di una nuova disciplina (nota come geografia umana) in virtù dell’azione di Alexander von Humboldt, il fondatore vero e proprio della geografia moderna. Dunque, parliamo per la prima volta di una rivoluzione culturale su carta e che è destinata a rimanere tale, prima se non altro dell’avvento dell’imperialismo coloniale del XIX secolo. L’elaborazione delle informazioni destinate alla produzione salgariana non è materia di contorno per l’intreccio narrativo, ma frutto dello studio consapevole dello spazio geografico, nelle latitudini e nelle longitudini raffigurate a volte con icastica precisione, nei suoi biomi più disparati che costituiscono la base di ogni fantasia, termine che merita una serie di precisazioni.
Per fantasia noi intendiamo la capacità mentale di riprodurre ciò che non esiste; pertinente alla fantasia è il suo alimento d’elezione: il “fantastico”, che, ribadisce Tzvetan Todorov, non è altro che la scelta che il lettore compie fra la spiegazione naturale e quella sovrannaturale di un fatto insolito (La letteratura fantastica, 1977). Sarebbe corretto definire con “fantasia” in Salgàri, solamente ciò che possiamo valutare in prosa come immaginazione fervida, probabilmente sostenuta da interessanti basi filologiche, fondata pertanto su un recupero di notizie correnti o di contenuti accantonati da altri, perché poco fruttiferi alle tasche e all’ingegno. A tal proposito è opportuno chiarire due concetti oltremodo differenti, sempre mischiati nella prosa salgariana: invenzione e immaginazione.
A torto si suol dire che Salgari abbia “inventato” il mondo dei suoi romanzi di avventura con la forza del pensiero, perché, come è noto, non poté viaggiare, come se il viaggio in sé, nella sua esperienza di trama narrata, non confermerebbe la veridicità delle sue storie; in realtà non c’è nulla di inventato: lo spazio geografico definito è perlustrato con puntualità scientifica, anzi racchiude delle informazioni che rappresentano un’interessante mediazione delle fonti cartografiche, antropologiche, storiche, scientifiche e geografiche settecentesche e ottocentesche in voga a quel tempo. Per cui l’aspetto puramente inventivo rischia di compromettere il valore della prosa.
Si dovrebbe alla stessa maniera evidenziare, invece, l’immaginazione, cioè la capacità di inventare situazioni e storie narrative che dipendono dal contesto e che, inevitabilmente, sono aggrappati a esso come grappoli d’uva ai vitigni.
Sulla falsariga di quanto individuato può allinearsi l’opinione di un lettore di eccellenza, totalmente isolato dal piano della lettura e della comprensione delle dinamiche narrative. Stiamo parlando di Claudio Magris. Germanista, romanziere, saggista, e studioso acuto e fine, che ha interpretato il fermento culturale dell’area dei domini dell’antico impero austroungarico. Magris si è sempre professato lettore di Salgàri, per il quale non ha mai lesinato commenti e spunti interessanti; anche lo studioso ha notato il fermento culturale delle pagine salgariane; infatti egli osserva che Salgàri “era la storia e la geografia, la biblioteca di Babele della prima adolescenza: i bucanieri delle Antille, gli scorridori della prateria, i pescatori di perle di Malabar, i disertori della Legione Straniera, i forzati dell’isola di Norfolk, la stella dell’Araucania, il fiore delle perle delle Filippine… A suo modo e sulla sua scala ridotta Salgari consente al lettore l’esperienza della totalità, sia pure d’una totalità elementare ed ingenua” (L’acquisto del comarcah, in Dietro le parole, 1978 e 2002). Totalità elementare e ingenua, e spesso se ne presenta traccia nella copiatura delle pericope che riporta la dicitura enciclopedica della tale pianta o del tale animale; atteggiamenti che trovano sicuramente spunto dal presentare un mondo in piena conformità con le prime rappresentazioni di spazio geografico allora disponibili, o meglio di come questo cominciavano ad associarsi alla narrazione; pertanto vi è insito nelle pagine dello scrittore veronese un senso di precisione quasi documentaristico, che rispecchia in pieno il fermento positivista.
Curioso, poi, come in un altro saggio di Magris che mi permetto di sottolineare (“Libri di Lettura” in Alfabeti. Saggi di letteratura. Garzanti, 2008), lo scrittore triestino parli della totalità creativa del fiume Gange, col cui grande fluire cominciano I misteri della giungla nera di Salgàri; un fiume che circonda la Terra e alimenta storie nutrimento dei lettori; parte di uno spazio che contiene e insieme inventa la realtà del passato e del presente. La decisione di decodificare il fiume come pilastro della narrazione è la chiave per comprendere la compenetrazione della narrativa salgariana in Magris; si legga, ad esempio, questo bel passo, dell’Infinito viaggiare: “Il viaggio-scrittura è un’archeologia del paesaggio; il viaggiatore – lo scrittore – scende come un archeologo nei vari strati della realtà, per leggere anche i segni nascosti sotto altri segni, per raccogliere quante più esistenze e storie possibili e salvarle dal fiume del tempo, dall’onda cancellatrice dell’oblio, quasi costruendo una fragile arca di Noè di carta, sebbene ironicamente consapevole della sua precarietà”. Salgàri archeologo, Salgàri tra invenzione e immaginazione, Salgàri evocazione.
Dalla capacità evocativa salgariana ripescherei il parere dello stesso Magris, che racconta di “aver cominciato a leggere la seconda parte [I misteri della giungla nera], quando Tremal Naik, costretto ad assecondare per liberare l’amata Ada, finge di porsi al servizio degli inglesi sotto il nome di Saranguy; avevo compiuto da poco sei anni e appena imparato a leggere e la prima parte me l’aveva letta, un po’ per giorno, mia zia Maria, quando non sapevo ancora decifrare l’alfabeto”. Una testimonianza utile, in quanto credo che siano stati pochi gli autori che possano vantare un traguardo simile, o, ancora meglio, le opere della letteratura italiana che possano annoverare tale pregio, vale a dire una fruizione orale del prodotto letterario che ha fatto da apprendistato all’alfabetizzazione dei più giovani; andrebbero di certo annoverati anche Carlo Collodi e Pellegrino Artusi le cui opere hanno dato un preziosissimo contributo negli anni dove si incominciano a formulare diverse tesi sulla questione della lingua: hanno fatto più questi autori dimenticati e ingurgitati da migliaia di generazioni che non tutto il Novecento nel suo straordinario dilatarsi tra: crisi dell’io e proliferazione degli -ismi. In questo processo di diffusione letteraria “consumata” e “recitata” cominciava la partecipazione dei ceti subalterni ai momenti di vita collettiva e alla fonti della cultura che, come credeva il linguista Graziadio Isaia Ascoli, dovevano costituire la base per lo sviluppo di una lingua unitaria.
Delle seguenti, e delle future, pagine che hanno accompagnato lungo il corso della sua vita Claudio Magris siamo condotti attraverso l’analisi del prezioso lascito salgariano: “dalla fantasia adolescente e improbabile di Salgari ho imparato l’amore per la realtà, il senso dell’unità della vita e la famigliarità con la varietà di popoli, civiltà, abiti, costumi, diversi ma vissuti come differenti manifestazioni dell’universale-umano”. L’universale salgariano illustra l’inizio di un nuovo modo di leggere il presente, senza dimenticare il percorso tracciato dal passato: vedere la totalità del mondo circondata da un senso di fraterna uguaglianza di tutti i popoli della terra, spesso attraverso la lente di deformazione dell’uomo occidentale; lente che non accostiamo più alla nostra sensibilità di lettori.