L’8 settembre è una data periodizzante della storia italiana e ne rappresenta uno dei passaggi più discussi e controversi per la rilevanza politico-istituzionale che ha assunto nelle vicende del Paese, anche se a volte questo momento è oggetto di interpretazioni non sempre corrette sul piano storico perché inquinate da visioni ideologiche e particolaristiche. Molti anni fa due impostazioni si sono confrontate in modo aspro, ma civile: quella del presidente della repubblica Ciampi, da una parte, e quella dello storico ed editorialista del Corriere della Sera Galli della Loggia, dall’altra. Il primo ha sottolineato il ruolo patriottico dell’esercito italiano proprio a partire dall’8 settembre ’43, il secondo ha coniato la famosa locuzione di “morte della patria”, espressione già formulata dal giurista Salvatore Satta nel De Profundis, che rappresenta un caposaldo del “revisionismo storico”. In questo dibattito colpisce la (quasi) totale assenza di esponenti politici e intellettuali di sinistra, che sulla Resistenza qualcosa da dire l’avrebbero senz’altro, facendo sì che le forze democratiche nel caso migliore si schierino con Ciampi.
Per parte nostra crediamo che sia utile e produttivo dare un piccolo contributo alla discussione in corso.
La fine del fascismo (25 luglio del 1943) è da attribuire alla guerra e ai suoi effetti disastrosi sulla vita dell’Italia intera: trovava conferma quanto gli antifascisti avevano preconizzato negli anni precedenti lo scoppio del conflitto, in riferimento agli esiti catastrofici che esso avrebbe assunto. Ma dire che la guerra sia stata un fattore importante per la caduta del fascismo non significa trascurare gli altri fattori come, purtroppo, da qualche tempo si tende a fare nel dibattito politico e storiografico. Un’altra causa decisiva fu rappresentata, infatti, dalla resistenza al fascismo cominciata sin dalla sua comparsa sulla scena politica italiana negli Anni Venti e continuata nei lunghi e terribili anni della dittatura, nel corso della quale il prezzo pagato dagli antifascisti fu altissimo. A farne le spese furono soprattutto i comunisti e poi via via tutti gli esponenti dello schieramento democratico, che o furono uccisi o finirono nelle carceri del feroce regime mussoliniano, non per caso modello degli altri regimi fascisti, a cominciare da quello nazista, che si imposero in Europa negli Anni Trenta. E a tal proposito è utile sottolineare la politica di unità antifascista adottata da comunisti e socialisti a partire dal ’35, dopo che per anni si erano scontrati all’insegna di uno sterile settarismo. Politica di unità antifascista che fu messa in pratica in occasione della guerra civile spagnola (1936-1939), che tra l’altro forgiò molti dirigenti della Resistenza italiana.
Ma il sacrifico dei combattenti antifascisti nel periodo del terrore fascista non fu vano: la rete clandestina degli antifascisti, che agiva soprattutto nelle carceri del regime che funsero da straordinaria scuola di formazione, fece sì che si accentuasse il distacco del popolo italiano dal regime fascista quando esso entrò in guerra decretandone nei fatti la fine. Ancora: l’ultimo anno di vita del regime manifestò lo sfacelo dello Stato e fece capire l’entità del disastro che stava per abbattersi sul nostro Paese. Fu per questo che l’opposizione, soprattutto i comunisti, si mosse in modo più esplicito riuscendo ad organizzare anche gli scioperi: famosi quelli del marzo ’43, che provocarono la rabbiosa reazione dei fascisti e dei loro alleati tedeschi, dato che mettevano a nudo la intrinseca debolezza della dittatura.
Lo sbarco in Sicilia degli alleati nella notte tra il 9 e 10 luglio del ’43 squadernò la crisi del regime sotto gli occhi del mondo intero: l’Italia era il “ventre molle” dell’Asse e non era neanche in grado di tenere lontano dal suo territorio il nemico. Mussolini e la sua ventennale dittatura erano giunti all’ultimo atto e di lì a poco (25 luglio) il fascismo sarebbe diventato storia passata.
Infatti, il 24 luglio si riunisce il Gran Consiglio e ognuno dei componenti tenta di scaricare sugli altri la responsabilità della catastrofe; alle due del mattino viene messo in votazione l’ordine del giorno Grandi (in accordo con Bottai e Ciano), che raccoglie 19 sì, 7 no e 1 astenuto. Il re Vittorio Emanuele III annuncia a Mussolini che ha già provveduto a sostituirlo con Badoglio; e quando il dittatore uscirà da Villa Savoia verrà arrestato dai carabinieri e tenuto come prigioniero fino a quando i tedeschi non lo libereranno con un colpo di mano il 12 settembre.
La fine del fascismo veniva comunicata agli italiani attraverso la radio, prima dal re e poi dallo stesso Badoglio, che assumeva il governo militare del paese con pieni poteri. Le parole di Badoglio non lasciavano adito a dubbi:” La guerra continua, l’Italia duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa delle sue millenarie tradizioni”. La gioia, grande e irrefrenabile, diede la cifra dello scollamento tra il regime e il popolo, anche se la tragedia per gli italiani non poteva dirsi conclusa. E mentre la popolazione manifestava la sua gioia, i capi fascisti fecero ressa all’ambasciata tedesca per trovare scampo: i voli per la Germania si susseguirono: i gerarchi correvano dai loro padroni per prendere ordini e decidere sul da farsi!
Ma in questa occasione vogliamo sottolineare altri aspetti della vicenda e non c’è bisogno di soffermarsi ulteriormente sullo squallore dei capi del regime, ché questo è consegnato alla storia.
La monarchia non aveva fatto cadere Mussolini per instaurare un sistema democratico; voleva, al contrario, mantenere il potere senza introdurre alcun cambiamento sostanziale. Il re e Badoglio erano molto spaventati della partecipazione popolare alle manifestazioni che avevano salutato la fine di Mussolini e si lanciarono immediatamente in una sorta di dittatura militare che avrebbe dovuto sostituire quella fascista. L’emblema di ciò è la circolare Roatta del 27 luglio:” Nella situazione attuale qualunque perturbamento dell’ordine pubblico, anche minimo e di qualsiasi tinta, costituirà tradimento e può condurre ove non represso a conseguenze gravissime; ogni movimento dev’essere inesorabilmente stroncato in origine; […]; le truppe procedano in formazione di combattimento, aprendo il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico…”. Non per caso, dopo questa allucinante circolare fu aperto il fuoco sugli operai delle Reggiane, causando nove morti; poi a Bari: ventitré morti e settanta feriti; e scontri e incidenti si susseguirono in molte parti d’Italia. Tutto ciò era la dimostrazione che non si poteva fare affidamento sulla monarchia, che lasciava il Paese senza indicazioni in balia degli eserciti stranieri. Fra i nazisti che dopo il 25 luglio invadono la penisola italiana (l’operazione Alarico) e gli angloamericani che continuano la campagna d’Italia, il governo italiano rimane inerte, terrorizzato dai tedeschi e al tempo stesso incapace di firmare immediatamente un armistizio. I soldati italiani che si ribellano ai tedeschi, agiscono per proprio conto, non ci sono direttive, non c’è la strategia né la tattica.
Vediamo allora di fare il punto di quello che era successo.
1) La caduta del fascismo è da attribuire sia ai fattori esterni che a quelli interni; 2) la resistenza al fascismo è cominciata molto prima che il regime cadesse; 3) la monarchia si libera di Mussolini, ma vuole continuare nella politica ultraconservatrice e antipopolare che da sempre la caratterizza; 4) l’esercito italiano è inerte nei confronti degli eserciti stranieri, in particolare terrorizzato dai tedeschi; anzi, viene attivato dai capi per sparare contro le manifestazioni popolari; 5) i militari italiani che reagiscono sono una sparuta minoranza, mentre l’Italia è completamente occupata dai tedeschi e dagli angloamericani; 6) nei ‘quarantacinque giorni’ c’è una significativa attività antifascista foriera di quell’organizzazione resistenziale che prenderà le mosse a partire dall’8 settembre (“A Roma, a Milano, a Torino, altrove, in varie città del Nord e del Centro, in Emilia e in Toscana, a Napoli, i Comitati antifascisti di fronte nazionale, costituitisi nel corso dei quarantacinque giorni, stanno acquistando – anche se il dato non va esagerato – una loro fisionomia più autonoma, un atteggiamento, un’iniziativa, […]”(P. Spriano, Storia del PCI, vol. V, pag. 9); 7) la notizia dell’armistizio, firmato a Cassibile dal generale Castellano e dal generale Bedell Smith (per conto di Eisenhower) il 3 settembre, chiude i quarantacinque giorni e dà contemporaneamente il via alla Resistenza che nell’arco di venti mesi (25 aprile ’45) porterà l’Italia alla libertà (occorre dire, inoltre, che anche al Sud era cominciata la Resistenza, con forme diverse da quelle del Centro-Nord, subito dopo lo sbarco degli anglo-americani del 10 luglio).
Dunque, tra il 25 luglio e l’8 settembre è diffusa la sensazione del disastro e del caos, uniti al sentimento di indignazione verso il tradimento della monarchia che ingenera lo spirito del “tutti a casa”, come sola salvezza dai “fuochi nemici”. Ma c’è anche la risposta: certo, non ancora organica e completa, ma significativa su quasi tutto il territorio nazionale, al Nord e al Sud. Ad agosto manifestazioni di protesta a Napoli e nei paesi vicini; proteste anche in Sicilia e in altre regioni. A proposito della Sicilia, vogliamo aprire una breve parentesi. Si può dire che la prima reazione antitedesca si verifica proprio in Sicilia: a Mascalucia e a Castiglione di Sicilia, due paesi in provincia di Catania. Franco Pezzino, dirigente comunista e intellettuale meridionale di prima grandezza, racconta che una rivolta armata contro i tedeschi, alla quale parteciparono centinaia di cittadini, scoppiò a Mascalucia il 3 agosto. Negli stessi giorni scontri e fatti d’arme furono registrati anche a Pedara, Biancavilla, Adrano, Belpasso, Bronte, Randazzo, Valverde, Calatabiano. “Ma il peggio”, scrive Pezzino, “non era ancora venuto: doveva essere il 12 agosto il giorno più nero. In quel giorno a Castiglione di Sicilia, un comune dell’Etna di settemila abitanti, la furia nazista si scatenò nelle stesse forme in cui più tardi, dopo l’8 settembre, infierì a Marzabotto e in altre decine di città e paesi d’Italia. […]. Venti i feriti e sedici gli uccisi, in quell’eccidio senza nome, tanto più orribile in quanto non provocato da alcunché, da niente che fosse almeno noto alla popolazione”(F. Pezzino, L. D’Antone, S. Gentile, Catania tra guerra e dopoguerra, Edizioni del Prisma, 1983, pag. 194)
Poco prima della fine di agosto circa tremila detenuti e confinati comunisti, solo una parte di tutti i detenuti e confinati comunisti, vengono liberati, ma comunque tenuti sotto stretta osservazione, e cominciano ad organizzare la lotta per decretare la fine definitiva del fascismo. Non per caso a Roma, Milano, Torino, in Emilia e in Toscana, nel Centro e al Sud, i Comitati antifascisti di fronte nazionale, costituitisi nel corso dei quarantacinque giorni, stanno acquistando una struttura e una iniziativa politica, capace di proporli come interlocutori del governo Badoglio. Netta è, infatti, la presa di posizione del Comitato centrale delle forze antifasciste a Roma il 2 settembre del ’43:” […] di fronte alla discesa in Italia di ingenti forze militari tedesche, con il palese fine di fare sul territorio italiano l’estrema difesa della Germania hitleriana e nazista, e nel contempo di promuovere e aiutare la riscossa dei fascisti, che infatti rialzano ovunque la testa, constatato che per questo fatto e per la minaccia tedesca contro ogni eventuale tentativo dell’Italia di ritirarsi dalla lotta, non è più possibile arrivare ad uno stato di neutralità e che quindi occorre prendere posizione nell’immane lotta che deciderà dei destini del mondo, proclama questi principi…”(Ivanoe Bonomi, Diario di un anno, Milano, 1947, pp. 86-87).
È evidente che si individua nel nazifascismo il nemico principale e che si lavora per una riscossa nazionale affinché alla fine della guerra l’Italia non debba essere umiliata. Gli antifascisti auspicavano, inoltre, l’unità di popolo ed esercito, la necessità di prendere accordi “per fare fronte a tutte le esigenze della lotta”. Sappiamo, però, che le alte gerarchie militari erano di diverso avviso e osteggiavano questa alleanza che avrebbe potuto assumere valenza politica dirompente: era in gioco l’assetto futuro dell’Italia dopo vent’anni di regime mussoliniano. E più passano i giorni e le settimane e minori diventano le possibilità di cacciare i tedeschi: più difficile a settembre che a luglio; peraltro, i comandi fuggiranno con il re e il problema non sarà neanche posto concretamente, ma di questo parleremo dopo.
Pertanto, essendo stata respinta dal governo la soluzione di appoggiarsi al popolo nella resistenza armata e restando in campo solo la possibilità della contrapposizione delle forze militari, che non furono chiamate a combattere dal re e dai generali, la difesa dell’Italia era già compromessa e la parte settentrionale del Paese era di fatto sotto il dominio dell’invasore tedesco, nettamente superiore all’esercito italiano.
Queste linee essenziali per evitare che si possa pensare alla fine del fascismo come ad una fine spontanea, una sorta di implosione, senza valorizzare, invece, l’azione delle forze organizzate che dall’interno lo indebolirono facendolo crollare. Potremmo dire, allora, che l’Italia dopo il 25 luglio ’43 era “una nazione allo sbando”, ma a patto che si dica che i 45 giorni servirono anche per la riorganizzazione delle forze politiche che dall’8 settembre daranno vita alla Resistenza armata contro i nazifascisti. Come scrive Battaglia:” Ciò non diminuisce, anzi aggrava, la responsabilità del governo del 25 luglio che, dopo aver creato tale situazione dando libero accesso ai tedeschi, aveva almeno il preciso dovere di compiere ogni sforzo per conseguire la vittoria ove il rapporto di forze si conservava a noi favorevole. Perciò la difesa o la mancata difesa di Roma assume un valore esemplare per rendersi conto dell’8 settembre […]”(R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1964, pag. 86).
Del resto, lo squallore dei comandi militari italiani e della monarchia è stato ricostruito con dovizia di particolari da Elena Aga Rossi (Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, Il Mulino, 1993), che usa parole durissime verso chi si è rifiutato di combattere lasciando campo libero ai tedeschi e provocando una vera catastrofe. “Non vi fu mai”, afferma Aga Rossi nel suo libro, “l’intenzione di passare a una attiva azione contro i tedeschi, nemmeno dove le forze militari lo avrebbero permesso. […]. Il risultato fu comunque quello di portare alla disgregazione delle forze armate italiane, all’internamento di 600.000 soldati e ufficiali e all’occupazione tedesca di quasi tutto il territorio italiano.”(Una nazione…, pp.123-124). La rinuncia a combattere i tedeschi e la viltà mostrata con la fuga dagli alti comandi e dalla monarchia, preoccupati solo della loro incolumità personale, rappresentano una delle pagine più tristi e umilianti della storia d’Italia. La mancata difesa di Roma fu un atto ignobile, data l’indubbia preponderanza delle forze italiane su quelle tedesche. “In tale occasione un’azione decisa avrebbe avuto il significato di una scelta inequivocabile, qualunque fosse l’esito finale, e avrebbe potuto avere conseguenze enormi, dando un segnale della compattezza dell’esercito italiano e favorendo la sua partecipazione attiva alla battaglia in corso a fianco degli angloamericani, e portando al ritiro dei tedeschi a nord della capitale e quindi anche a una più rapida liberazione del paese.”(Una nazione…, pag. 153)
Vediamo a questo punto cosa successe l’8 settembre del ’43.
Dappertutto gli antifascisti chiedono alle autorità militari di poter combattere, ricevendo quasi ovunque netti rifiuti. In particolare, fu Roma al centro degli avvenimenti dell’8 settembre: si videro carri armati nelle vie adiacenti il Viminale e il Quirinale e si pensò che l’esercito italiano volesse difendere la città. Ma il mattino dopo si capì che il re e il governo e lo stato maggiore erano fuggiti, (avevano pensato più alla propria sicurezza personale che alla preparazione di una difesa contro la prevedibile reazione tedesca, si misero in salvo per mare riparando in Puglia dietro le linee alleate, mentre la flotta riusciva a raggiungere Malta) e il Comitato delle opposizioni si costituì in Comitato di Liberazione nazionale con Bonomi, Casati, De Gasperi, Ruini, Nenni, Scoccimarro e Lussu. Lo stato maggiore italiano era dunque scomparso; il popolo e l’esercito erano rimasti soli a battersi contro un nemico deciso, che “colmava l’inferiorità numerica con una schiacciante superiorità tattica e una ferrea coerenza direttiva”(L. Longo, Un popolo alla macchia, Ed. Riuniti, 1974, pag.52). Il 10 settembre la città si trovava sotto l’attacco tedesco, che, nonostante atti di eroismo, si portò fino a Porta S. Paolo dove trovò la strenua resistenza dei granatieri; nel frattempo i popolani accorsero a dar man forte ai militari e per alcune ore fronteggiarono i tedeschi alla Piramide Cestia e in altri luoghi della capitale. I tedeschi occuparono una Roma semideserta, ma era chiaro a tutti che si chiudeva una fase e se ne apriva un’altra. In ogni caso la resistenza di Roma simboleggiava il tentativo di collegare le forze popolari all’esercito, tentativo che anticipava ciò che la Resistenza avrebbe messo in atto nei lunghi mesi fino al 25 aprile del ’45.
Analizziamo ora in modo specifico la tesi di Galli della Loggia a proposito della “morte della patria”. Il suo ragionamento muove da un’impostazione fortemente ideologica: l’anomalia italiana, il “caso italiano”, che ha visto nel secondo dopoguerra la forte presenza dei comunisti e l’incapacità-impossibilità della borghesia italiana rappresentata dalla DC di costruire una vera “democrazia occidentale”, che non ha visto la luce proprio per la presenza (forte!) dei comunisti. Ma per meglio comprendere le tesi di Galli della Loggia è necessario inquadrare i suoi argomenti nell’ambito di un filone storiografico che teorizza (aggressivamente) posizioni ben precise: è vero che l’Italia monarchica e fascista non era la patria dei cittadini, bensì quella dei sudditi, ma era l’unica patria esistente e facilmente riconoscibile da tutto il popolo. Ma la “tragedia” dell’8 settembre, la dissoluzione dell’esercito, il tradimento con fuga del re, la viltà degli alti comandi, la doppia umiliazione inflitta all’Italia dai tedeschi e dagli alleati, costrinsero gli italiani a cercarsi una nuova patria: “la patria antifascista nata dalla Resistenza”, ricorrendo più al mito che alla realtà (vedere a tal proposito E. Aga Rossi, op. cit. e R. Gobbi, Il mito della Resistenza). Pertanto, l’antifascismo non aveva alternative: doveva essere continuamente richiamato (ostentato?) come principale fondamento della Repubblica, come unico referente etico-politico. In realtà i veri antifascisti e i veri fascisti rappresentavano un’esigua minoranza del popolo italiano, che nella sua stragrande maggioranza era costituito da afascisti che non potevano riconoscersi nella Repubblica antifascista nata dalla Resistenza. A questo punto era indispensabile affinché ci fosse la patria comune trasformare la maggioranza afascista in maggioranza antifascista, capace di una resistenza passiva, e negare la qualifica di ‘italianità’ agli aderenti alla RSI, facendoli diventare fantocci dell’invasore tedesco. Inoltre, per evitare qualsiasi rottura con la componente resistenziale comunista, sempre secondo questa storiografia, sono state dimenticate le “stragi” dei partigiani jugoslavi, le foibe; tutto ciò perché i comunisti italiani avevano assunto una linea non conciliabile con gli interessi della nazione italiana.
Analizziamo ora più da vicino alcune tesi di Galli della Loggia.
La morte della patria, sostiene della Loggia, esprime in profondità la crisi dell’idea di nazione in conseguenza della guerra, dato che esisteva negli italiani il vincolo di appartenenza ad una medesima comunità nazionale. In Italia, sostiene sempre della Loggia, la nazione è stata un effetto derivato dello Stato, una sua creatura. “Nella nostra storia l’esistenza della nazione è indissolubilmente legata all’esistenza dello Stato (nazionale), sicché, da un punto di vista storico il concetto e il sentimento di patria costituiscono precisamente il riflesso ideologico-emotivo di questo intreccio” (Galli della Loggia, La morte della patria, Editori Laterza, ed. economica 1998, pag. 5). Dunque: la nazione in Italia è stata il prodotto dello Stato unitario (monarchico) che giunge, tra alti e bassi, ai famosi quarantacinque giorni (25 luglio – 8 settembre). Lo Stato si sfascia, finisce la nazione e di conseguenza la patria che ne rappresenta il riflesso, come dice della Loggia, “ideologico-emotivo”; lo Stato scompare a motivo della sconfitta bellica, ma la sconfitta è causa, prodotto e manifestazione di qualcosa di ben più grave: “di una paurosa debolezza etico-politica (secondo l’espressione che Renzo De Felice è stato uno dei pochi ad adoperare) degli italiani.”(op. cit., pag. 5).
Fermiamoci un attimo. È da contestare l’idea che la nazione italiana sia il prodotto dello Stato unitario risorgimentale: non si dà Stato che non abbia a fondamento la nazione e, viceversa, una nazione che non “produca” lo Stato, almeno per tutta la fase storica segnata dalla modernità. La fine dello Stato monarchico-fascista non significò la scomparsa della nazione italiana; anzi, si manifestò una nazione più matura, consapevole e avanzata che manifestava il bisogno di trovare corrispondenza adeguata con forme statuali più avanzate: la Repubblica che sorgerà dopo la guerra di liberazione su basi politiche democratiche e di massa, cioè completamente nuove rispetto a quelle che si era dato il vecchio Stato monarchico-liberale (ricordiamo che la proclamazione del regno d’Italia aveva significato l’esclusione delle masse popolari e l’autoesclusione dei cattolici) e monarchico-fascista. È corretto, pertanto, parlare di nazione fondata dalla Resistenza antifascista, soprattutto perché i comunisti, principali artefici della guerra di liberazione, si assunsero una funzione nazionale durante e dopo la guerra e vollero sempre salvaguardare il fondamento unitario di quel passaggio storico-politico. Basti pensare alla “svolta di Salerno” nella primavera del ’44; né si può accettare la tesi secondo la quale un partito comunista, che si richiama all’internazionalismo, non può portare avanti una politica nazionale, nel senso dell’interesse nazionale delle classi lavoratrici. Abbiamo decine di esempi di partiti comunisti che svolgono una essenziale funzione nazionale, proprio perché sono comunisti, e altrettanti esempi di borghesie che apparentemente sostengono l’interesse nazionale, ma in realtà sono pronte a svenderlo per difendere i loro interessi particolaristici. Così come è da respingere la tesi di Galli della Loggia (che in realtà è di De Felice) della paurosa debolezza etico-politica degli italiani, travolti dal crollo del fascismo e dal tradimento della monarchia: privi di virtù e moralità nel momento in cui bisognava combattere e perciò costretti poi ad inventarsi l’antifascismo, la nazione e la patria, come avvenne col mito della Resistenza. A questa argomentazione rispondiamo dicendo, come abbiamo fatto all’inizio di questa riflessione, che la lotta al fascismo cominciò prima ancora che Mussolini prendesse il potere; che questa lotta continuò con grande sacrificio negli anni della dittatura (forse il sacrificio e il sangue dei comunisti non contano?!) e si intensificò nei mesi che precedettero la fine del regime. L’adesione al fascismo non fu mai totalitaria, né il fascismo fu un regime “all’italiana” che alla fine accomodava tutto.
E a proposito dell’impegno degli italiani tra il ’43 e il ’45: si intende svilirlo dicendo che gli italiani impegnati nella lotta furono solo una parte, e quella lotta, comunque, riguardò soprattutto o quasi esclusivamente l’Italia centro-settentrionale. Chi sostiene questa tesi forse non sa che l’impegno politico serio e continuativo è sempre di gruppi ristretti rispetto alla totalità della popolazione: ad esempio, nella Francia rivoluzionaria non più di un decimo della popolazione prese parte agli avvenimenti che presero le mosse dall”89. Anzi, nel periodo resistenziale si deve rilevare che il numero dei militanti fu piuttosto elevato. Ma oltre ai militanti ci fu l’azione della popolazione che oppose ai nazifascisti una quasi unanime resistenza passiva; la solidarietà straordinaria che circondava i soldati fuggiaschi dopo l’8 settembre e che rappresentava l’inizio della ‘resistenza passiva’ così viene descritta da Claudio Pavone:” Il quadro dev’essere arricchito con il ricordo delle manifestazioni di solidarietà e di aiuto che gran parte della popolazione subito offrì agli sbandati e ai fuggiaschi. Era una solidarietà la cui essenza stava nel suo manifestarsi attraverso atti concreti. Accanto ai primi barlumi di resistenza attiva, in quei giorni furono largamente gettati i semi della <resistenza passiva>, intesa come creazione di un clima e di un ambiente favorevoli alla prima. I macchinisti rallentavano la corsa dei treni ed effettuavano fermate impreviste per permettere ai soldati di scappare, […]. I contadini erano <mossi da un sentimento confuso e grande che era insieme commossa pietà per tutti questi figli di mamma senza casa e in pericolo […]. Tutti offrivano vestiti borghesi ai militari. La fraternizzazione fra civili e militari, che non era riuscita sotto il segno equivoco di Badoglio, riusciva ora sotto quello della comune disgrazia.”(C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, 1991, Bollati Boringhieri, pp. 18-19)
La guerra di liberazione sarebbe stata impraticabile senza il favore o “il silenzio” delle popolazioni, che fecero fallire, peraltro, i tentativi di reclutamento della RSI: infatti, su tredicimila nostri soldati deportati in Germania e poi arruolatisi ‘volontari’ come SS italiane, ben diecimila scomparvero nel momento in cui tornarono in patria. Ancora: gli stessi fascisti riconobbero l’importanza della ‘resistenza passiva’ degli italiani, come dimostrano le parole del maresciallo Graziani (comandante delle forze armate della RSI):”Praticamente il governo della RSI controlla, e solo fino a un certo punto, la fascia piana a cavaliere del Po; tutto il resto è virtualmente in mano dei cosiddetti ribelli, che riscuotono il consenso di larghi strati della popolazione”.
In conclusione, possiamo dire che la posizione di Galli della Loggia esprime un attacco organico alla Resistenza e alla Repubblica che ne è sorta, il tipo di democrazia che ha prodotto, l’identità nazionale che ha determinato dalla fine della Seconda Guerra mondiale fino alla caduta dell’URSS (1991), non tralasciando la polemica contro i partiti e contro la discriminante dell’antifascismo, vista come foriera di divisione e incapace di determinare una “democrazia compiuta, occidentale”. A queste posizioni, si può solo ribadire che la Resistenza vide la partecipazione popolare che era (in parte) mancata nel Risorgimento, un’insurrezione popolare mossa dalla coscienza nazionale contro un esercito potente: “senza la lotta partigiana, senza l’insurrezione l’avanzata degli alleati sarebbe stata assai più lenta ed i tedeschi avrebbero avuto ampia possibilità di poter comodamente distruggere gli impianti industriali, saccheggiare le opere d’arte ed i valori delle nostre città”. (P. Secchia, Aldo dice 26×1, Feltrinelli 2a edizione 1973, pag.154).
Insurrezione unitaria e nazionale per la conquista delle libertà democratiche, per realizzare profonde riforme sociali.