I naviganti della Meloria, un’illuminante orografia della penisola italiana

Articolo di Filippo Scimé

Emilio Salgàri è testimone assoluto della letteratura italiana d’avventura, laddove con tale termine si può comprendere tanto l’immensa vastità del mare – la grande tazza del mondo come lo avrebbe definito Capitan Testa di Pietra – quanto la spuma dei marosi e il fragore prodotto della risacca: Salgàri, infatti, è immensità e sfumature, quantunque il critico Carlo Ossola abbia notato che in Salgàri l’avventura richiede “distanza, la distanza esotismo, l’esotismo azione, l’azione vittime ed eroi”, una meravigliosa concatenazione, ragionata e documentata, che si è dipanata su innumerevoli fiumi di carta.

    La produzione salgariana abbraccia una sterminata serie di avventure, riproposte in differenti luoghi geografici; una ramificazione, specchio di una ricchezza che nasconde un’armonica concezione di avventura policentrica, non monocentrica o limitatamente settoriale, sebbene buona parte di questa prolissità dipenda dalle mode librarie, dai contratti con gli editori e dai creditori sviluppati nel tempo.

Variabili che sarebbe ingiusto trascurare, perché hanno reso Salgàri uno scrittore diverso dal suo proposito iniziale, ossia quello di diventare narratore d’avventure, come scriveva a Garbini, editore de La Valigia, in una lettera di presentazione del 1883 “possedendo un vasto quanto svariato repertorio di simili scritti, unitamente ad alcuni romanzi sul genere dei Verne, degli Aimard e dei Cooper”. La citazione dei modelli apre parentesi filologiche assai curiose per capire i tempi e i modi della narrazione salgariana. Pur con evidenti limiti dettati dal tempo a disposizione e dalla precarietà dei materiali librari, l’autore veronese è riuscito a proporre una narrativa differente e concettualmente dissimile per la forma, la varietà tematica, mantenendo la costante scientifica, e disseminando i vezzi stilistici; in un registro medio-alto che ha contribuito, come precisa Bruno Traversetti nella sua Introduzione a Salgari, a uniformare la lingua allo stato; elenco all’interno del quale credo, a buon diritto vadano aggiunte, Le Avventure di Pinocchio di Carlo Collodi e La Scienza in cucina e l’Arte del mangiare bene di Pellegrini Artusi, le quali per le proprietà intrinseche che esse racchiudono hanno presentato una capacità indubbiamente alte di unire il popolo italiano, mediamente alfabetizzato, istruirlo moralmente (se pensiamo all’ultimo libro della triade era anche un bene dotale), e divertirlo.

Specificatamente sul piano dell’avventura, il magistero salgariano ha concepito una miriade di cicli narrativi, che non ambiva a una sistemazione categorica; ne distinguiamo, secondo una distinzione sommaria, un gruppetto di “episodici”: si veda il Ciclo dei pirati della Malesia, il Ciclo dei Corsari delle Antille; oppure auto conclusivi, tra i quali figura, degno di nota, uno tra i romanzi meno conosciuti di Salgàri, dal titolo: I Naviganti della Meloria, che fa parte del sottogruppo, almeno nominalmente definito dagli studiosi “Ciclo dei romanzi d’Italia”, ripeto: una distinzione non salgariana.

L’opera, pubblicata nel 1902 con lo pseudonimo di Enrico Bertolini dall’editore Donath, è incentrata inizialmente sul viaggio condotto da un piccolo bragozzo che, abbandonata la foce del Brenta, solca i mari dell’Adriatico in cerca di pescato da rivendere ai mercati chioggiotti; la piccola imbarcazione è guidata dal nostromo Don Vincenzo “con certe braccia da sfidare un atleta e la pelle assai abbronzata dal sole e dalla salsedine marina. Vero tipo di lupo di mare veneto dai modi bruschi ma franchi” e da quattro marinai validissimi, tra i quali campeggia l’oscura figura di Simone Strovik “con certi occhi d’un azzurro profondo che hanno dei lampi d’acciaio che talvolta fanno una profonda impressione. Tipo ruvido del resto, violento, brutale, tollerato solamente per la sua forza straordinaria”: già dalla descrizione salgariana notiamo un netto squilibrio tra due poli, il bene e il male, con un uso delle funzioni dell’aggettivo qualificativo capace di delineare anche il carattere morale dei personaggi.

Durante le operazioni di pesca, la rete rimane imbrigliata a causa di quello che si suppone possa essere un grosso pesce, invece, dopo aver fatto leva sulle poderose braccia dei giovani marinai, Don Vincenzo nota che sulla tolda viene tirato su, imbrigliato dalle reti da traino, un baule misterioso contenente una lettera scritta con caratteri del greco moderno (in realtà la scoperta è incastonata da un sorprendente gioco di scatole cinesi, allietato da un effetto di crescente suspense). La decifrazione e la successiva traduzione del testo sono affidati all’amico di Don Vincenzo, l’esploratore dottor Bandi, un affascinante protagonista, “con due occhi assai vivaci, che brillano dietro gli occhiali montati in oro e con un bel paio di baffi neri. Un tipo simpatico, che esprime ad un tempo, una grande bontà ed una grande energia”; questi, che rimane un perno della narrazione nella duplice veste di consulente ed esploratore (un doppio salgariano?), decifrando il documento parla di una scoperta sorprendente destinata a un grandissimo sconvolgimento. È frequente ritrovare in Salgàri la concreta presenza di personaggi-studiosi che aggiungono un taglio scientifico o pedagogico-scientifico per la capacità di rivelare le informazioni disposte in attesa di essere chiarite con semplicità divulgativa. Aspetto non secondario, se rammentiamo che in Italia cominciavano ad affacciarsi i primi specialisti nel campo della linguistica o della decifrazione crittografica: c’è sempre un occhio alla fonte e un altro alla realtà che muta e sta scandendo nuovi tempi e modi all’interno della società.

   Nel documento in questione, appena tradotto dal dottor Bandi, si fa riferimento a un lunghissimo tunnel, non camminata di palagio, ma natural burella avrebbe scritto il sommo Dante, scavato nel corso del 1300 da Luigi Gottardi, capitano della Repubblica genovese, che collega il Tirreno all’Adriatico; il tunnel è stato probabilmente scavato per sorprendere con un’azione, di marchio genovese, le coste adriatiche e attaccare a sorpresa la celeberrima rivale di Venezia. Stranamente Salgàri non si lascia prender la mano dalla divagazione storica e liquida la centralità della città lagunare nel giro di un capoverso, evitando di netto la digressione storica; probabilmente si tratta di una scelta utilitaristica: l’autore, come abbiamo evidenziato poc’anzi, utilizzò infatti uno pseudonimo per pubblicare l’opera e quindi cercò di riuscire semplice e diretto; oppure potrebbe essere stata una scelta narrativa che ha preferito dirottare tutto sull’area geografica in questione, sebbene generalmente non siano infrequenti le digressioni storiche nei suoi romanzi, si pensi alla dilogia Capitan Tempesta e Il leone di Damasco, esempio dell’importanza della collocazione storica e geografica dei luoghi salgariani.

   La scoperta del canale di comunicazione che verrà percorso interamente dalla piccola troupe e del quale molte opere hanno valutato l’attendibilità storica e geografica, ha un’eco importantissima per capire il ruolo della città-mondo (come la ha definita lo storico Fernand Braudel) che aveva aperto le vie terrestri con il mondo asiatico e quindi, in prospettiva, con il Pacifico. A Venezia, ha specificato un interessante studio di Salvatore Ciriacono, “sarebbero giunti inoltre dall’Oriente più che le tradizionali spezie tutta una serie di prodotti (diamanti, cotone, seta greggia e lavorata, pellame, zucchero, caffè, tè, rabarbaro) che caratterizzarono gli scambi con l’Asia e che continuarono a percorrere, almeno sino al fatidico 1797” (come appurato in Venezia e la globalizzazione, 2021). Occupare Genova avrebbe comportato aumentare la produttività e acquisire la centralità dei mercati del Mediterraneo. Dunque, una chiave di lettura geopolitica attraversa lo scritto, considerazioni insolite per un romanzo d’avventura.

La rivalità tra Venezia e Genova fa da sfondo a un microcosmo umano compreso tra Don Vincenzo, figura del buon capitano arruolato per la spedizione, e il marinaio illirico della sua ciurma: Simone Strovik, mosso da un’ambizione senza freni, solleticato dal ritrovamento di un ipotetico tesoro; che a sua volta diventa capo di una piccola cordata di marinai, avventurieri d’altra risma nell’avventura. Nel lungo arco di questa polarità tra personaggi positivi (Dottor Bandi, Don Vincenzo, Roberto, Michele, senza dimenticare la trasformazione degli ultimi tre da marinai a esploratori) e personaggi negativi si snodano le vicende avventurose di un’opera affascinante.

Continue nozioni orografiche, chimiche, geologiche si avvicendano tra le pagine, dando testimonianza anche di scoperte che allora erano ampiamente conosciute e venivano parzialmente utilizzate. Si veda il riferimento alla lampada di sicurezza usata dai quattro esploratori; Salgàri all’inizio del capitolo XIV esordisce in questa maniera: “La lampada di sicurezza, inventata dal celebre chimico inglese Davy circa ottant’anni or sono, permette di sfidare impunemente il gaz tuonante, chiamato anche grisou, che si trova sparso talvolta in grandi quantità nelle miniere di carbon fossile. Somiglia ad una lampada comune, ma la fiamma è circondata da una fitta reticella metallica, la quale impedisce che l’accensione si comunichi al gaz esterno, e ciò per una legge fisica assai facile a spiegarsi”. L’utilizzo di queste notizie è un afflusso continuo perché il soggetto principale, il fondale su cui si snoda questa affascinante avventura, è la terra con i suoi bollori sotterranei, i suoi tumulti misteriosi, un luogo di progressive sfumature di buio, che non conosce silenzi, se non quelli che anticipano i grandi scuotimenti.

E i bagliori di luce si rincorrono tra nemici che s’inseguono e speranze che si accendono, d’altronde si potrebbe davvero pensare a una fantasmagoria: “Una luce intensa, rossastra, veniva dall’estremità opposta, ad intermittenze, facendo scintillare i marmi e tingendoli talvolta di riflessi rosei d’una meravigliosa bellezza. Pareva che laggiù ardesse un gran fuoco, quantunque non si scorgesse, almeno pel momento, fiamma alcuna” (cap. X); e ancora: “alla luce di quella grande fiamma che s’allargava in forma di ventaglio, fugando le tenebre per un tratto vastissimo, il dottore ed i suoi compagni avevano potuto scorgere distintamente le prime vôlte del canale. La grande caverna ormai si restringeva rapidamente non solo, ma anche si abbassava. Già si potevano vedere, quando la fiamma eruttava con maggior violenza, le due rive del lago” (cap. XIII). Accendere, spegnere, riaccendersi e sparire. Un lungo tunnel verso la luce, ossia la conclusione del romanzo. Si potrebbe addirittura fare un’analisi ragionata delle scelte linguistiche utilizzate, e di quanto esse vivifichino una narrazione rendendo la luce nel buio.

E proprio questa luce presenta una tensione che si smaterializza, che diventa altro, forse qualcosa di più grande che il lettore non vede, ma immagina. La creazione dello scoglio dirompente dell’aposiopesi lascia basiti e ammirati. Le grandi palpitazioni che hanno accompagnato i nostri eroi ora cessano e si librano nell’aria di un’avventura che si preannuncia più grande, proferita dalle parole trionfanti del dottor Bandi: “Ed ora, amici bravi, andiamo ad annunciare all’Italia la meravigliosa scoperta! …”.

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