Il Natale, Napoli e i napoletani nell’Opera letteraria di Salvatore Di Giacomo

Articolo di Armando Giardinetto

A Napoli il Natale è una ricorrenza molto sentita, antichi echi di questa festa millenaria si mischiano a usi contemporanei anche se oggi purtroppo il consumismo la fa da padrone. Pertanto, soprattutto quando a tavola siedono i bambini, vale la pena di rispolverare quei canti popolari e quelle poesie natalizie che sono state dei nostri nonni e bisnonni per riscoprire la bellezza originale della Natività. Salvatore Di Giacomo, compositore, poeta, drammaturgo e saggista tra i più importanti di tutta la storia napoletana, che ha saputo raccontare una Napoli disgraziata e aggraziata allo stesso tempo, è un esempio in questo senso, avendo scritto delle cose sul Natale veramente molto simpatiche ed emozionanti e ricche di elementi che ancora oggi si vivono in prossimità delle suddette feste. “Nuttata ‘e Natale”, per esempio, è una poesia dove zampogne, zampognari, botti di Natale, Gesù Bambino e il freddo tipico del periodo risuonano assiduamente sin dall’incipit:

Dint’a na grotta scura
Dormeno ‘e zampugnare:
dormeno, appese a ‘e mura,
e ronfeno, ‘e zampogne
quase abbuffate ancora
‘a ll’urdema nuvena […].

Dormeno: a mezzanotte
Cchiù de n’ora ce manca;
e se sparano botte,
s’appicceno bengala,
e se canta e se sona
per tutto ‘o vicenato…
Ma ‘o Bammeniello nun è nato ancora […].

Salvatore Di Giacomo nasceva un anno prima dell’Unità d’Italia ed è stato profondamente stimato come poeta dal critico Benedetto Croce anche se i due presero a seguire due idee politiche contrapposte: “Attraggono il Di Giacomo soprattutto gli spettacoli tragici, umoristici… di abbrutimento e di sentimentalità… E si può ripetere di lui quel che fu detto del grande Lope de Vega, che come i fanciulli di ogni oggetto che capita loro tra mano si fanno un giocattolo, così egli di qualsiasi incidente foggia subito una poesia… Alle sue esequie non andai, pensando che la cerimonia sarebbe stata tutta fascistica… Ma mi fu di conforto che egli avesse chiuso la vita conciliato con me”.

Celeberrimi sono ormai i versi di tre sue poesie che sono diventate splendide canzoni come Marechiaro (1886), Era de Maggio (1885) e la famosissima composizione, tratta da un canto popolare pomiglianese, ‘E spingule francese (1888). La prima racconta di un appassionato corteggiamento di un uomo che, appostato sotto una finestra di Marechiaro con una chitarra in mano, aspetta che, da dietro una pianta di garofani, faccia capolino Carolina, bellissima ragazza dagli occhi più belli delle stelle:

A Marechiare nce sta na fenesta,

pe’ la passione mia nce tuzzulea,

nu carofano adora int’a na testa,

passa l’acqua pe sotto e murmuléa.

La seconda, invece, racconta di un amore che riesce a superare il tempo e le distanze. Maggio è il mese in cui lei saluta tristemente lui e gli chiede quando lo rivedrà. Lui le risponde che tornerà a maggio dell’anno successivo quando finalmente, allo sbocciare delle rose, i due potranno rincontrarsi nei luoghi dei loro primi appuntamenti:

E diceva: “Core, core! core mio, luntano vaje,

tu me lasse e io conto ll’ore…

Chi sa quanno turnarraje?”

Rispunnevo io: “Turnarraggio quanno tornano lli rose.

si stu sciore torna a maggio,

pure a maggio io stongo ‘ccà.

Dal canto suo la terza racconta di un venditore ambulante che, in cambio di baci da parte di belle signorine, cede delle spille da balia. Egli viene chiamato da una ragazza che gli chiede quante spille può avere per un tornese che, tra l’altro, è un termine con doppio significato dal momento che in napoletano ottocentesco significava non solo moneta di scambio, ma anche bacio:

Nu juorno me ne jette da la casa

Jenno vennenno spingule francese.

Me chiamma ‘na figliola: “Trase, trase

Quanta spingule dai pe’ nu turnese?”.

Dico io: “Si tu me dai tre o quatto vase

Te dong’ tutte ‘e spingule francese.

Nipote di un noto insegnante del conservatorio di San Pietro a Maiella, Salvatore Di Giacomo fu bravo studente liceale e, in seguito, allievo della facoltà di Medicina, ma, dal momento che la sua passione era la letteratura, lasciò la suddetta facoltà soprattutto dopo un avvenimento particolare: una macabra e nauseabonda lezione di anatomia e il ricordo spaventoso di una bacinella rovesciata da un collaboratore universitario con dentro fetide membra umane. Inizialmente la sua passione per le Lettere venne soddisfatta con alcune novelle scritte per il Corriere del Mattino. Più tardi, nel 1884, pubblica Sonetti, una bellissima raccolta di poesie in napoletano; a questa, in sette anni, seguirono altre non di minore importanza. Di grande successo furono altresì le scrittura teatrali come Assunta Spina. 

Cliente del Caffè Gambrinus, Di Giacomo preferiva le osterie sconosciute ai lussuosi ristoranti per non essere riconosciuto non solo per il fatto che odiava alcuni testi per i quali era identificato, come Marechiaro, ma anche perché la sua vita privata fu segnata da un matrimonio e da una relazione alla mercé dei pettegolezzi. Nel 1916 sposò Elisa Avigliano, ma pare che abbia avuto una nascosta storia d’amore con un’altra donna, una cantante italiana, Emilia Persico. 

Verso i 75 anni, dopo complicazioni dovute a un male alla vescica, il poeta si spense nella sua casa, a Chiaia. La sua tomba si può omaggiare nel Cimitero del Pianto. Essa appare come un enorme sarcofago di granito grigio chiaro che poggia su un piedistallo nero e su cui si legge a caratteri cubitali: SALVATORE DI GIACOMO.

Come detto all’inizio, il suddetto ha scritto delle bellissime poesie e novelle sullo spirito del Natale: Buon Natale (1890) e la novella Notte della Befana (1887). In Buon Natale la sua interlocutrice è una certa Teresa alla quale chiede di non affliggerlo perché, cercando di paragonare la sua esistenza a quella di Cristo, uomo innocente morto tragicamente a causa di un mondo infame, capisce che c’è però una differenza sostanziale: è vero che Gesù muore, ma rinasce ogni anno la notte del 25 dicembre, mentre lui non ha questa fortuna. Con questa poesia il poeta vuole sottolineare che nel mondo ci saranno sempre innocenti che verranno sopraffatti da alcuni irrispettosi che credono di potersi prendere gratuitamente gioco di altri più deboli:

Penza, oi ne’, ca ‘o Bammeniello

fattose ommo e tale e quale

comm’ a ll’ ate grussiciello,

ncopp’ ‘o munno scellarato,

senza fa’ male a nisciuno,

secutato e maltrattato,

ncroce, oi ne’, iette a fenì!

E st’ asempio ca te porto,

Teresì, tienelo a mmente,

ca pur’ io, nnucentamente,

chi sa comme aggia murì! […]

Isso – sempre sia lodato –

Isso nasce ogn’anno: io no!

Nella novella, invece, l’autore ci racconta una triste storiella fatta di elementi tutt’oggi ancora molto presenti in prossimità delle feste natalizie: infanzia, povertà, malinconia, speranza, tristezza, tenerezza. La protagonista, Chiarinella, è una bambina povera e malata che vive in una casa fatiscente. La mamma non ha i soldi neppure per chiamare il medico perché la possa visitare. Nunziata, una vicina di casa, impietosita dalle condizioni della piccina, le racconta la storia della Befana e le dice che quella notte ella sarebbe arrivata per metterle nella calza appesa a letto ciò che si meritava: dolci o carboni. Così, arrivata l’alba, Chiarinella guarda nella sua calza tutta bucata speranzosa di scorgere qualcosa, ma purtroppo non trova nulla e proprio per questo motivo piange miseramente:

La piccola calza bucherellata era caduta sulla coverta del lettuccio, e da presso due piccole mani vi si abbandonavano, esangui. Tra tanta infantile minutezza le cose più grandi eran due lacrime, che scendevano per le gote di Chiarinella”.

Dopo aver preso in considerazione i due scritti sopra esposti, si può certamente affermare che per fortuna oggi gli usi legati al Natale, in una città come Napoli, continuano ad essere tramandati. Tuttavia è anche vero che la modernità viene prepotentemente a squarciare il velo della tradizione, rendendola forse meno sacra: il presepe, simbolo antico, si arricchisce di statuine di personaggi moderni e l’albero di Natale quanto più luminoso ed elegante è, tanto più si fa guardare. Sulle tavole, laddove un tempo c’era lo stretto necessario, oggi si servono pietanze che non vengono neppure toccate e vanno a finire direttamente nella spazzatura. 

Forse in passato, quando c’era la povertà, si era certamente più ricchi dentro perché Natale significava famiglia unita e riunita in attesa della mezzanotte per togliere dalla sacra culla il panno di lino affinché Gesù Bambino venisse al mondo. Eppure oggi non in tutte le case si vive questa festa nello sfarzo poiché molti indigenti lo passano silenziosamente con quel poco che hanno, magari anche nell’indifferenza degli altri.

Rispolverare poesie, canti tradizionali, vecchie storielle sul Natale piene di sentimento come quelle che possono essere di Salvatore Di Giacomo, che con la sua letteratura napoletana incastonata in quella del Verismo italiano, potrebbe riportare quella magia antica del Natale di un tempo ormai andato via per sempre. Quello in cui, a Napoli, le nonne intonavano un canto popolare antico sul Natale, dove il focolare è inteso come luogo ove tutta la famiglia raccolta passa la veglia della Viglia e la giornata di Natale cibandosi di tanto rispetto e di tanta sacralità che oggi scarseggiano: “Mo vene Natale, nun tengo denare, ‘o meglio pizzo è ‘o fuculare”.

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