Credo che non si possa prescindere dallo studio della geografia, o meglio dal fornire elementi “geografici” che consentano di valorizzare lo spazio umano nella sua interezza geografica, quale commistione di elementi naturali e sociali, come nella riflessione estemporanea sollecitata dalla lettura di vari generi letterari. Vero è che Carlo Cencini nel suo celeberrimo Compendio di Geografia Umana notava anzitempo che “con la specializzazione nei diversi campi del sapere, almeno a livello scientifico, si è attuata una separazione tra la geografia fisica, che rientra a pieno titolo nelle Scienze Naturali, e la geografia umana (o antropica), che fa parte delle Scienze Umane”. La netta distinzione fra le due discipline, però, è materia esclusivamente di pertinenza scientifica, ma in generale fare geografia significa capire il mondo circostante e saper leggere l’evoluzione umana nel corso del tempo: esteriore delle dinamiche economiche, e interiore delle dinamiche sociali. Salgàri, da questo punto vista, si è presentato un precursore ante litteram nella letteratura italiana, costruendo una narrazione che non si discosta da una visione geografica tout court. Anzi credo che si possa parlare di narrazione geografica.
Nella creazione del processo narrativo salgariano possiamo notare come i temi narrativi siano stati prevalentemente geografici nel senso lato del termine; dunque, capaci di leggere il mondo nella sua mutevolezza fisico-spaziale di terre emerse, che non potevano essere scoperte, se non da lettori avidi di mondi che esistevano nella loro dimensione cartacea; ma anche nella sua complessa variabilità terrestre di tipo economica, sociale, e persino antropologica, si veda quanto ho scritto su quest’argomento: https://www.ilsaltodellaquaglia.com/tracce-di-etnografia-salgariana-il-metodo-e-la-scrittura/ . Tutto ciò avviene e matura all’interno di un periodo storico nel quale la geografia era vista come “accessoria” alla narrativa per stilemi descrittivi che confluiscono nel romanzo italiano da Manzoni a Fogazzaro, e da questi a Verga, la caratterizzazione naturale corrisponde ad altri criteri.
E se da un lato curiose sarebbero le riflessioni sulla narrativa autoriale dell’Ottocento italiano (di quanti cioè abbiano tracciato un solco dalla narrazione salgariana), dall’altro è proprio il tema della ‘geografia’ che svincola Salgàri da tutti gli altri autori italiani: la geografia è il viaggio autoriale che non è un tema narrativo fisso o una tappa obbligata, viatico morale, ma sentiero di conoscenza, inno e voce della documentazione di immagini, panorami suoni mai più uditi e replicati, forse perché sognati e che hanno bisogno di una collocazione geografica per esistere. Salgàri non appare il classico narratore onnisciente, ma – azzardo una definizione – un narratore climax che progredisce disegnando le coordinate delle sue avventure, i suoi spazi sterminati tra ecumene e anecumene, le sue curiosità culturali, le sue emozioni, insomma tutto ciò che certa moda di fine Ottocento andava presentando, anche con precise strategie editoriali, al grande pubblico; rientra, a mo’ di esempio, nella congerie di scritti allora presenti, il giornale Biblioteca di viaggi inaugurato nel 1884 dall’editore Edoardo Perino. Tramite la Biblioteca si affermò un interesse specifico per le scoperte geografiche e per le figure di esploratori, nuovi eroi di civiltà in un rapporto complesso nella dimensione uomo-natura. L’orizzonte letterario creato intercettava l’interesse e le aspettative di molti lettori, e la biblioteca salgariana di riferimento si muove costantemente verso la geografia, campo che egli guarda con estrema curiosità, scientifica, naturalistica, cercandovi materiali da digrossare per la propria opera che si pone come obiettivo un realismo naturale, un tirocinio indiretto sulla descrizione del mondo.
Ha scritto giustamente il filologo Daniele Ponchiroli, nella silloge di cui è curatore Avventure di prateria, di giungla e di mare, che Salgàri «s’era studiato le carte geografiche e la storia delle imprese marinaresche da Colombo in giù»; tale pericope testuale comprova che lo studio delle carte è un nutrimento continuo per impreziosire il tessuto narrativo, non è tanto un vezzo stilistico, ma la volontà di creare elementi che possano coesistere nella narrazione. Si veda a tal proposito l’interessante incipit del racconto I moderni Robinson che appartiene alla rivista nota con il titolo Giornale di Avventure e Viaggi Illustrati, pubblicato a Genova dall’editore Donath e diretto dallo stesso Salgàri. Qui riportato, per gentile concessione dell’Archivio Samanta e Vittorio Sarti – Biella, nel quale ritroviamo alcuni elementi di discussione su quanto analizzato:
“Da parecchi mesi gli armatori ed i capitani del porti della Francia, vivevano in una angosciosa inquietudine circa la sorte toccata ad una delle più belle navi, della loro marina mercantile: l’Anjou. Da dodici mesi quel magnifico bareko, che stazzava tremila tonnellate, aveva lasciato Nantes con numeroso equipaggio e si era messo in viaggio per l’Australia e più nessuna nuova era giunta sul suo conto”. Quante storie avranno avuto questo inizio, consapevoli di un mondo in continua trasformazione, che in questo abbraccio tra i due estremi cominciava a imbastire l’inizio di un andirivieni segnato non solo dalle storie di signori elegantissimi, che viaggiano per diletto, ma anche di poveri emigranti in cerca di fortuna, al seguito di granaglie (come cereali di vario tipo) e animali vivi per assicurare disponibilità di carne fresca e di latte durante la navigazione, quando a bordo non esistono ancora né elettricità né frigoriferi.
“Invano i suoi armatori avevano spediti dispacci su dispacci a tutti i consoli delle città costiere dell’Australia e non avevano che una sola risposta, affatto insufficiente a calmare le loro apprensioni ed a tranquillizzare le famiglie dei marinai. – Anjou, partito 20 gennaio 1901 da Sydney, carico grano, destinazione per Salmouth. – Poi più nulla. A Salmouth non era stato veduto, nelle altre città australiane non aveva approdato, nessuno lo aveva Incontrato, né al sud, né al nord del continente e nemmeno nei paraggi delle numerose isole che coprono buona parte dell’Oceano Pacifico. Che cosa era dunque avvenuto di quel superbo veliero che era stato affidato al capitano Le Tellac, uno dei più distinti marinai delle coste Brettoni, che conosceva il mondo a menadito e che non aveva mai fatto naufragio, cosa piuttosto rara por la sua età, con tanti e tanti anni di navigazione? Non vi erano che due sole supposizioni da fare: o che un tremendo uragano l’avesse sorpreso e affondato o che i selvaggi delle isole Salomone o della Nuova Islanda avessero assalita la nave massacrando l’equipaggio. Gli armatori, dopo aver atteso molti mesi, colla speranza di avere qualche notizia sul loro veliero si erano ormai rassegnati a considerarlo come irreparabilmente perduto, quando venticinque giorni or sono un dispaccio da Marsiglia annunciava loro che il capitano Le Tellac ed il suo equipaggio erano sbarcati in quel porto dall’Ernst Simons che li aveva imbarcati a Colombo!”.
Avremmo potuto prendere in considerazione tante pagine più celebri, ma proprio in questo racconto (quindi anche nel microcosmo narrativo) leggiamo un affastellamento di informazioni che testimonierebbero una volontà di costruire un collegamento geografico, che lambisce tutte le proiezioni che questa disciplina possiede nella comprensione del mondo (ovvero di uno spazio in trasformazione), e un’erudizione che offre la lettura dell’universo che si sta scandagliando, unito a una volontà di ricostruire i connotati minimi dell’avventura: la conoscenza della navigazione, delle sue rotte e degli intoppi comunicativi e tecnici che si possono riscontrare; la rottura dell’equilibrio iniziale e la ricerca dell’oggetto.
Ribadisco che la narrazione salgariana sia stato supportata da uno studio, che, al netto dell’incapacità di autocorreggersi, era supportato preparazione meticolosa in questo settore, fatta di: ricerca, documentazione, riproposizione, definizione, narrazione. Quindi si parte dalla ricerca del dato, consultando l’Atlante e le carte nautiche, e partendo dal presupposto che tale dato esiste, perché è presente nel mondo geografico, e di conseguenza ne supporta l’ambientazione del fatto narrativo; l’informazione viene cercata tramite una documentazione articolata, che comprenda le fonti disponibili di cui la biblioteca è in possesso; poi, una volta reperita, essa viene riproposta e definita nello spazio cartaceo; infine riproposta secondo il modello della narrazione – ad esempio nel caso specifico del nostro incipit le due supposizioni dell’autore che seguono con il dito le dicerie del tempo e i tragitti percorsi dalle navi in partenza dal porto di Nantes, tale atteggiamento posa sulla convinzione che il contesto esiste, solo se esiste l’informazione.
Rimane secondo me assurdo ignorare costantemente la narrazione salgariana e la rivelazione della geografia in essa presente; che obiettivo di Salgàri sia stato offrire ai lettori la lettura di modelli e prospettive diverse dal romanzo storico o da quello d’appendice è un fatto noto, che non ha bisogno di critica letteraria, ma solo di un’azione: la lettura. Valutiamo pure che questa azione ci consenta di capire nelle pagine salgariane che l’uomo è essenzialmente un fattore geografico, che modifica lo spazio nella sua interezza e nella sua circolarità di abitazione ed estensione delle sue proiezioni sociali ed economiche; e che lo fa secondo le proprie capacità tecnologiche e i propri interessi e dunque i bisogni. Un’interpretazione che permette di individuare nella produzione salgariana le diverse visioni di ogni ramo della geografia che nasce, cresce, e declina all’interno dello spazio umano e che inevitabilmente deve diventare percezione umana, non solo appannaggio degli esperti della disciplina, ma anche dei lettori, recettori di una interdisciplinarità che tutela e preserva il rapporto uomo-natura e lo studio, che proposto in tale maniera diventa studium cioè diligenza, impegno, amore come lo intendevano i latini.
Possiamo ritenere questa concezione valida? O sorge il dubbio di affibbiare a Salgàri una nuova etichetta sterile, fornendo elementi interpretativi quantitativamente spropositati e poco utili ai fini di una critica differente? Anche da questo punto di vista però rileggere Salgàri significherebbe avere un documento storico di una fase di trasformazione del mondo nel passaggio tra ‘800 e ‘900. Il filosofo e pedagogista statunitense John Dewey, del resto, non fa mistero di guardare con molto interesse alla geografia, trovandone addirittura un minimo comune denominatore con tutte altre discipline, e sottolineandone la filiazione nei programmi del curricolo di studi scolastici, che non può non definirsi attiva. Egli, infatti, sostiene che: “L’unità di tutte le scienze è trovata nella geografia. Il significato della geografia è che essa presenta la Terra come la sede duratura delle occupazioni dell’uomo. Il mondo all’infuori della sua relazione con l’attività umana non è mondo. L’operosità e l’azione dell’uomo, se si astrae dalle loro radici della terra, non sono ancora un sentimento, sono appena un nome […] Mediante ciò che facciamo nel mondo e col mondo abbiamo imparato a renderci conto del suo significato e a misurare il suo valore”.
Salgàri fu il primo, almeno in Italia, a predisporre narrazioni tenendo conto che l’esperienza e l’osservazione diretta (e indiretta) dei fenomeni deve nutrirsi di geografia e nascere nella geografia, come strumento principale per interpretare il mondo e capirlo al di là della visione dei fenomeni fisici accessibili alla percezione diretta. Non sarebbe male recuperare questa percezione della narrazione geografica nell’actio legendi.