“Scisma” di Ilaria Palomba (Les Flâneurs, 2024, 166 pagine) non è solo un libro di poesia, è un’esperienza liminale, un varco spalancato sull’abisso dell’esistenza («eri nella crepa, nell’abbandono»). Ilaria Palomba non scrive solo versi, incide la sua carne sulla pagina («crebbe in te la ferita, restò nuda, avrebbe martellato l’osso sacro»), trasforma il tentativo di annientamento in un canto di sopravvivenza brutale e necessario. Qui, la poesia non consola, non edulcora, ma squarcia il velo della finzione e ci precipita nell’epicentro di un’esperienza limite («non voglio essere salva per restare nell’ombra»).
Questo poemetto è un pugno nello stomaco, un viaggio allucinato nell’unità spinale di un ospedale, dove il corpo martoriato diventa il teatro di una lotta primordiale tra la vita e la morte. Come ci ricorda nella prefazione Luigia Sorrentino «Scisma di Ilaria Palomba è il racconto in versi di una sopravvissuta che guarda sé stessa dal di fuori, dal “dopo”».
Palomba non ci risparmia nulla: la morfina, le ossa frantumate, l’agonia della lesione spinale, l’alterità di un corpo che non risponde più ai comandi («le ossa/ salmodiavano in multipli/ scisse smembrate in frantumi. / Ho memoria di noi prima/ dello scisma»). “Scisma” è lo scollamento tra anima e corpo, la frattura dell’io, la vertigine della soglia. Ma è anche la testimonianza di un attaccamento feroce alla vita («Io foglia non mi arrendo se tu vita mi strappi via»), la volontà di ricomporre i frammenti di un’identità spezzata.
Palomba scrive dalla soglia, e la soglia è sempre un luogo di vertigine. Questo libro nasce da un’esperienza di frattura radicale – un tentativo di suicidio – ma non si ferma alla cronaca del dolore: “Scisma” è un rito di passaggio, una lingua che si spezza e si ricompone, una discesa che si fa ascesa.
C’è una densità materica nei versi di Palomba, una compattezza che rifiuta il lirismo vuoto e abbraccia il peso della realtà. La scrittura di Palomba è stratificata, un magma in cui convivono poesia, filosofia, esperienza vissuta e tracce di una tradizione poetica che affonda le radici in Louise Glück, Alejandra Pizarnik, Amelia Rosselli, Thierry Metz, Paul Celan ma che guarda alla riflessione radicale di Lévinas, ma anche di Deleuze e Lacan. La scrittura in “Scisma” è frutto di un «lavorio interno», continuo, un distillato dei tanti libri letti e metabolizzati, fatti carne viva, scrittura («Ho voglia di rivedere i miei libri, di toccarli. Tornare a Hölderlin, Proust»).
Lo scisma del titolo è duplice: è lo scollamento tra anima e corpo, il trauma che separa, la paralisi che impone un nuovo rapporto con il mondo; ma è anche lo scisma dell’io da sé stesso, la scissione dell’identità nel momento in cui il dolore la mette in discussione. Palomba costruisce una narrazione poetica che si muove su più livelli: il diario (che non è diario), il ricordo (che si trasforma in visione), l’io che si dissolve nel coro. La sua è una poesia che vuole trascendere l’esperienza individuale per farsi voce collettiva, canto di una comunità invisibile e franta.
E poi c’è il corpo. Il corpo è il grande protagonista di Scisma : un corpo che si rompe, che viene ricucito, che si muove tra morfina e ospedali, che cerca una nuova postura nel mondo. Un corpo che, come scrive l’autrice, «non torna mai per intero». La parola poetica, qui, è il tentativo di restituire unità a ciò che unitario non è più: «sono nell’altrimenti/ midollo squartato/ vertebra esplosa».
Leggere “Scisma” significa entrare in una zona liminale, dove la letteratura non è più solo letteratura ma ferita esposta, spazio di transizione, morte e nascita («non si sceglie la morte, ci sceglie… non si è mai abbastanza pronti per essere vivi»). È un libro che non consola, non chiude il cerchio, non offre soluzioni: lascia aperte le domande, le fratture, i fantasmi. E proprio per questo, resta.