La riforma della giustizia: una forzatura o una riforma necessaria?

Articolo di Francesco Ferrara

Tra i vari argomenti che animano il dibattito politico c’è quello della riforma della giustizia. Una riforma che intende modificare una parte della Costituzione: quella del titolo IV sulla “Magistratura”.

Il tema vede contrapposte su due diversi fronti maggioranza ed opposizione, anche l’Associazione nazionale magistrati ha, con forza, espresso le sue critiche nei confronti della riforma della costituzione nella parte che riguarda l’organizzazione della magistratura. Il tema è ampio non solo per i temi che coinvolge ma anche per gli aspetti su cui andrebbe ad incidere.

Ad una domanda “la riforma della giustizia è una forzatura o una riforma necessaria?”, invero, si dovrebbe rispondere con un’analisi dettagliata di tutti gli aspetti che questa riforma vuole porre in essere: dalla separazione delle carriere dei magistrati alla modifica della obbligatorietà dell’azione penale, senza trascurare la modifica del sistema disciplinare dei magistrati.

A parere di chi scrive, un’analisi su questo tema non può e non deve ridursi ad una risposta che si traduca in una scelta di campo politico. L’impressione che, tuttavia, si avverte è quella di una disattenzione comune sul tema che si intreccia con un pregiudizio di parte, fondato essenzialmente su opzioni di simpatia partitica.

Obiettivo di questa riflessione non è, dunque, quella di fornire la risposta esatta ma di dare a chi legge qualche chiave di lettura per maturare una propria opinione su una riforma che ci riguarda da vicino, più di quanto possiamo pensare.

La riforma, in discussione al Parlamento, riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura. Un’analisi condotta su un’istituzione e sulla sua organizzazione non può prescindere dal dato storico. Un’istituzione, un po’ come una persona, è anche la sua storia. Il Consiglio Superiore della Magistratura, previsto dalla Costituzione, ha iniziato ad operare nel 1958 e contrariamente a quanto si possa pensare nel corso di quasi settant’anni ha subito varie modifiche interne riguardanti proprio la sua organizzazione; ciò a prova che nessuna istituzione è e deve essere immutabile.

La sua peculiare finalità e missione è garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e, per il suo tramite, il corretto svolgimento di una delle funzioni più delicate e preziose di un ordinamento giuridico: la funzione giurisdizionale.

L’amministrazione della giustizia, ed ancor prima la sua organizzazione, non sono qualcosa che riguarda gli addetti ai lavori ma riguarda ciascuno di noi (direttamente o indirettamente) ed è funzionale a rispondere alla “domanda di giustizia”. Una delle funzioni pubbliche più delicate che una comunità deve sapere custodire ed organizzare.

Una domanda, quella di giustizia, che non pone solo chi pensa di avere subito un torto, ma una domanda che ciascuno di noi, anche silenziosamente, chiede al proprio Stato perché lo rassicuri che le vicende umane e la loro potenziale conflittualità trovi un luogo di composizione.

Gli antichi romani, padri del diritto, utilizzavano un’espressione piena di concretezza per definire la funzione del diritto e di quella che oggi non chiamiamo “magistratura”: “ne cives ad arma veniant”.

Una delle funzioni del “sistema giudiziario” è quello di contenere la conflittualità tra i cittadini all’interno di un meccanismo che si chiama “processo”: un insieme di attività umane regolate e gestite da un corpo professionale di lavoratori pubblici (i magistrati) che insieme agli avvocati cercano di trovare una soluzione ad un caso controverso e nel caso della giustizia penale, in particolare, trovare la verità giudiziaria su un fatto.

Quello su cui si ragiona è l’organizzazione della “magistratura” e non come, enfaticamente, qualcuno dice la riforma della “giustizia”. Termine quest’ultimo che sembra rispondere più alle intime aspirazioni di ciascuno di noi che alla realtà dei fatti, nei quali – siamo ben coscienti, come lo erano i padri e le madri costituenti – le opere umane devono essere rette dalle virtù ma non necessariamente coincidono con esse.

La separazione delle carriere: una per i pubblici ministeri (la pubblica accusa) ed una per i magistrati giudicanti. Il tema non è di secondo ordine e le ragioni a favore come quelle contrarie sono entrambe da analizzare e ponderare. Il tema però non è nuovo non solo al dibattito mediatico e politico, ma anche alla realtà quotidiana dell’organizzazione della giustizia. Il Consiglio superiore della magistratura – di cui in conseguenza si vorrebbe ottenere lo sdoppiamento, forse ignorando i costi economici dello sdoppiamento di un organo di rilevanza costituzionale – già invero presidia questa eventualità. Ci sono norme legislative e circolari interne al C.S.M. che regolano quello che tecnicamente si chiama “tramutamento” delle funzioni.

Non entro nel merito, ma mi limito a richiamare l’attenzione sullo stato dell’arte.

Altro tema, assai rilevante, è quello della modifica dell’articolo 112 della Costituzione che vorrebbe temperare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Anche qui, non è una questione risolvibile con le logiche da tifo da stadio; l’appesantimento degli apparati giudiziari esiste e non tutte le responsabilità possono essere addebitate ai loro attori. Forse bisognerebbe prima allargare l’orizzonte dei nostri sguardi e chiederci se tutte le fattispecie del codice penale siano ancora attuali e soprattutto se la pena penale sia l’unica strada percorribile per ogni vicenda umana che viola la legge.

Ritorna prepotente la domanda: “è una forzatura o una riforma necessaria?”

Nessun sistema è perfetto e riflettere e proporre delle riforme è salutare, è segno di buono stato di salute della nostra democrazia. La materia e gli interessi pubblici che tocca sono, però, tanti e delicati e – a parere di chi scrive – occorre analizzare il sistema nella sua interezza, disegnando, come in una mappa geografica, le caratteristiche del territorio: quello dell’amministrazione della giustizia.

Un lavoro meticoloso e necessario (come è una buona riforma) che va condotto con pazienza e dialogo costruttivo da parte di tutti “gli abitanti” del sistema giustizia, pena l’apparire un atto di forza.

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