La Pasqua è ancora una parabola di salvezza? In dialogo con il professore Francesco Pira

Articolo di Pietro Salvatore Reina

La Pasqua è la massima solennità della liturgia cristiana nella quale viene ripresentato il mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù.

Il termine ebraico pesach dal quale deriva il termine «Pasqua» è tradotto comunemente con «passaggio», «salto», «transito» secondo l’interpretazione che si vuole dare al termine nell’espressione della Bibbia (Esodo 12,13). Il vero significato etimologico della parola è tuttora discusso e non è escluso che essa derivi dall’egiziano, e sia connessa col senso di «colpire», in relazione con la decima pianga d’Egitto (la morte dei primogeniti colpiti da Dio).

All’inizio la Pasqua è stata una festa pastorale: l’offerta delle primizie del gregge, cui posteriormente sarebbe stata aggiunta la festa agricola dell’offerta delle primizie della mietitura dell’orzo, il pane azzimo. Nel corso di una celebrazione pasquale Gesù, secondo la narrazione dei Vangeli, istituisce il sacramento dell’eucarestia.

All’inizio del Triduo pasquale di quest’anno il World Press Photo è stato assegnato alla fotografa Samar Abu Elouf che ha ritratto Mahomoud Ajjour, di 9 anni, evacuato a Doha dopo che un’esplosione gli ha fatto perdere un braccio e mutilato l’altro. Un crocifisso di questi tempi disumanizzati.

Tutte le religioni, ed in particolare il cuore stesso del Cristianesimo, che dopo la sofferenza, il buio della morte e del sepolcro, fa seguire la luce del Risorto incastona la speranza nascosta nel cuore d’ogni uomo, d’ogni donna. La Pasqua ci insegna o ci dovrebbe insegnare di privilegiare la vita sulla morte. Come lettori e lettrici de Il salto della quaglia vogliamo approfondire e capire il “senso” delle tragedie, della disumanizzazione che sta colpendo soprattutto i bambini, addirittura i neonati a Gaza, nel Sud Sudan, Ucraina, ecc.

Lo facciamo con il professore Francesco Pira, Associato di Sociologia dell’Università di Messina, saggista e giornalista , che con sagacia e acume ci aiuta a leggere la realtà, difficile e complessa, che stiamo vivendo.

D.: Da tempo assistiamo a una frammentazione dei rapporti umani, dell’ordine mondiale: guerre – se ne contano più di sessanta -, carestie, violenze. Il nostro orizzonte appare pieno di rovine, macerie, vite umane spezzate e uccise. La Pasqua, parabola di vita, di vittoria sulla morte, come può farci prendere coscienza e consapevolezza dell’importanza delle nostre coscienze civili e delle relazioni con tutti gli altri esseri viventi?

«È vero. Indubbiamente, i conflitti e gli atti di prevaricazione sono sempre più marcati. In questo contesto, la Pasqua – simbolo di rinascita, speranza e vittoria sulla morte – può essere letta anche attraverso una lente sociologica, come occasione per riscoprire il valore della coscienza civile e delle relazioni umane. Viviamo in quella che il sociologo Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”, in cui i legami sono diventati fragili, instabili e spesso utilitaristici. I rapporti umani si sgretolano sotto il peso dell’individualismo, della competizione e della paura dell’altro. In questo scenario, il messaggio pasquale può rappresentare un invito potente a ricostruire legami autentici, a riscoprire la solidarietà e la responsabilità reciproca. È un’opportunità per fermarsi e riflettere sulla necessità di tornare a un’etica della cura e dell’attenzione verso l’altro, che è alla base di ogni società sana. La Pasqua, oltre al suo significato religioso, può essere interpretata come una potente occasione per rigenerare la nostra coscienza sociale, per costruire “ponti” là dove ci sono macerie, e per riscoprire l’importanza delle relazioni umane come fondamento di una società più giusta e più coesa».

D.: Ci siamo abituati, purtroppo, alle immagini di corpi mutilati, uccisi? Non smuovono più le nostre coscienze e le coscienze di chi ci governa? Perché non si reagisce più?

«Sì, purtroppo ci siamo abituati. In una società iperconnessa, dove le immagini scorrono velocemente sui nostri schermi, anche il dolore e l’orrore rischiano di diventare spettacolo o rumore di fondo. Le immagini di corpi mutilati, di vite spezzate dalla guerra o dalla violenza, non sembrano più scuotere le coscienze collettive come una volta. Questo accade non perché siamo diventati insensibili per natura, ma perché siamo vittime di un processo di desensibilizzazione progressiva, frutto di sovraesposizione mediatica e di una società orientata al consumo rapido dell’informazione. Il sociologo Jean Baudrillard parlava già negli anni ’80 del rischio di vivere in un’epoca di “simulacri”, dove la realtà viene sostituita dalla sua rappresentazione mediatica. Le immagini non ci colpiscono più nella loro verità, perché sono inserite in un flusso continuo di notizie, pubblicità, intrattenimento e distrazione. Tutto assume i contorni della “normalità”. Ma non è solo una questione mediatica. A livello sociale e politico, si è diffusa una “cultura dell’indifferenza”, come l’ha definita Papa Francesco, che anestetizza la coscienza civile. E perché non si reagisce più, nemmeno da parte di chi governa? In parte perché la politica è spesso intrappolata in logiche di convenienza, di calcolo geopolitico, di equilibri economici che rendono difficile un’azione eticamente guidata. Questa paralisi emotiva e politica non è però irreversibile. La coscienza collettiva può risvegliarsi quando le persone ritrovano spazi di senso, narrazioni alternative e occasioni per riconnettersi con il dolore dell’altro. È un processo lento, ma necessario: perché solo quando torneremo a guardare quelle immagini non come semplici contenuti, ma come ferite reali nella carne dell’umanità, potremo ricominciare a sentire, a indignarci e, soprattutto, ad agire».

D.: Una domanda “forte”, “nuda” come lo è un crocifisso: la tecnologia può renderci stupidi, insensibili, poco umani? Può mutare la nostra natura umana e celebrale?

«Il problema non è la tecnologia in sé, quanto il modo in cui noi la usiamo. Non possiamo utilizzare le nuove tecnologie senza spirito critico. Il progresso non va demonizzato, ma l’uomo ha il dovere di assumere maggiori consapevolezze. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia digitale permea ogni aspetto della nostra vita: ci informa, ci intrattiene, ci connette. Ma come ogni strumento potente, può costruire o distruggere, risvegliare o assopire, liberare o condizionare. In questo senso, la tecnologia non è neutra: plasma i nostri comportamenti, le nostre relazioni, persino la nostra mente. La tecnologia può mutare la nostra natura, o meglio, può condizionare il nostro modo di essere umani. Non necessariamente in peggio, ma se vissuta con superficialità e passività, rischia di portarci a una disumanizzazione silenziosa: ci rende spettatori anziché partecipi, consumatori anziché pensatori, reattivi anziché riflessivi. Di fatto, il progresso può anche essere un potente alleato della nostra umanità, se sfruttato con responsabilità. Può connetterci e aprirci al mondo. Sta a noi scegliere: se farne uno strumento per crescere o una gabbia che ci semplifica troppo, fino a svuotarci dentro. Il crocifisso, parte del significato più ampio della Pasqua cristiana, ci chiede di interrogarci su che cosa significa essere umani oggi. Dobbiamo difendere la nostra umanità in un tempo che ci invita ogni giorno a dimenticarla. La Pasqua, simbolo di vita che trionfa sulla morte, ci invita a ragionare sulla nostra condizione umana e sul significato della nostra esistenza in un contesto globale che appare sempre più frammentato e segnato dall’angoscia. Allora, ecco che la Pasqua ci dona un messaggio di speranza e ci chiede che si lotti per la dignità di ogni persona».

Related Articles