Con “Diario di un autodidatta”, pubblicato da Guanda nella collana diretta da Mario Santagostini e selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega Poesia, Alfonso Guida compone un libro che è insieme mappa interiore e atto di resistenza poetica. Un’opera di frontiera, in cui l’autobiografia non è mai confessione narcisistica, ma “soglia” attraverso cui leggere il mondo e la propria stessa disgregazione.
Il volume è articolato in sei sezioni, che tracciano una traiettoria accidentata ma coerente: dall’apertura in prosa lirica de “Il mito represso” fino alle zone più stratificate e profonde de “Il censimento dei vuoti”, ogni parte si offre come tassello di un percorso non lineare, dove il tempo si rompe, il corpo vacilla e la parola tenta di farsi àncora. La scrittura non segue un andamento ordinato, ma procede per accumulo e cesura, per immagini che si affacciano e si ritirano, in un continuo gioco di immersione e riemersione.
Guida costruisce il suo diario come un atto poetico radicale: non tanto un racconto di sé quanto un movimento verso l’interno, una discesa in territori inospitali dell’esperienza, dove l’io si frantuma e si espone: «La strada non c’era, ma ho cominciato /presto a camminare. Non c’era niente. /Solo un vuoto orrido da cui pendevo. /Questo sentirmi attinto da un coltello.». L’autobiografia si fa così luogo di congiunzione, dove vita e scrittura si incontrano. L’io è voce multipla, attraversata da traumi, memorie familiari, figure perdute e fantasmi che tornano a reclamare la parola.
Per capire davvero la poesia di Guida– o almeno per provarci – bisognerebbe leggere anche i libri precedenti del poeta lucano. Solo così si intuisce il movimento interno della sua voce: i suoi approdi e i suoi ritorni, le fenditure e le immersioni. È una poesia che non offre certezze né punti d’appoggio, ma scardina e riscrive le verità: «Paradossi, parabole, il pensiero /tellurico di sapermi in attesa /di una risposta. Nessuna pretesa. /Nessuna tesa o illesa verità…». Ti lascia in balìa di te stesso, in mare aperto, in cerca di un orizzonte che non consola ma interroga.
È un inattuale Guida – non nel senso di un autore curvato su una poesia antica o stantia – ma un inattuale nel senso più radicale, come il Nietzsche delle “Considerazioni inattuali”, nel senso che la sua poesia scorre su una sottile linea a-temporale e a-spaziale, e proprio per questo tocca l’eterno. Ma questo non vuol dire che manchino il tempo/i tempi, lo spazio/i luoghi: sono tutti lì, ben visibili, intensi, radicati.
Quella di Alfonso Guida è una poesia che racconta la vita vera, la vita vissuta fino all’estremo. Una condizione esistenziale che tocca anche la dissipazione, ma che proprio in quella perdita trova lo slancio per rientrare in sé e rileggersi. È come se la parola poetica diventasse un limite necessario, una chiave, uno specchio per leggere il mondo e, allo stesso tempo, se stesso come mondo.
L’ambientazione, come spesso nella poesia di Guida, è un Sud aspro, mai pacificato. Non si tratta di un Sud folclorico o stereotipato, ma di un territorio simbolico e psichico, che affonda le radici nella storia familiare, nel paesaggio interiore e nelle lacerazioni del presente. È un Sud che non offre consolazione, ma che risuona di assenze e sopravvivenze, di rovine e desideri disattesi. È un Sud interno, dell’entroterra a volte primordiale, che accoglie la modernità come frattura: «Conforme alla catastrofe di Craco, all’attenuarsi del pullulare urbano nel manto periferico dell’estremo entroterra del Sud-paese in guerra, rimasto appeso a un filo di cenere, di culla…». Un Sud inattuale o, forse, proprio per questo, attualissimo. Questo sfondo si intreccia con un linguaggio denso, materico, dove la parola è al tempo stesso eco e fenditura, rifugio e ferita.
Dal punto di vista stilistico, il libro manifesta una consapevolezza formale pienamente raggiunta. Il dettato di Guida è mobile, poroso, capace di attraversare diversi registri senza perdere coesione. Alterna toni narrativi a momenti di intensità visionaria, il tutto mantenendo una voce unitaria e riconoscibile. È una poesia che conosce bene le regole, ma sceglie a volte di infrangerle con lucidità, per aderire al ritmo interno della necessità, della verità poetica. La sua lingua, controllata e stratificata, è frutto di tante letture meditate, vissute, interiorizzate, incorporate direi.
I riferimenti letterari sono numerosi: Beppe Salvia, Amelia Rosselli, Dario Bellezza, Federico Tavan, Andrea Zanzotto, Mario Benedetti. Non si tratta di citazioni ornamentali, bensì di presenze vive, con cui Guida dialoga in modo profondo. Questo dialogo non cancella la sua voce, anzi la amplifica: la sua poesia, pur attraversata da molte genealogie, resta sempre fedele a una postura assolutamente personale.
Diario di un autodidatta è, in definitiva, un’opera che parla da una frontiera: quella tra io e mondo, tra lingua e silenzio. È un libro che chiede molto al lettore – attenzione, ascolto, disponibilità all’inquietudine – ma che, proprio per questo, riesce a incidere. Non si esce indenni da questa lettura: ci si ritrova abitati da immagini, parole, memorie che non appartengono più solo al poeta, ma a chiunque abbia attraversato una perdita, una tregua, una soglia:
«Ti scrivo dal profondo dormiveglia
di una tregua spaventata, sprovvista
di inclinazione alla pace o alla quiete
stretta tra due rose di poche spine.
Mi sto allontanando. Vado lontano.
Mi allontano. Cerco. Divago. Indugio
Sono una figura di troppi lati.
Sono lo scavo muto di una pioggia
riflessiva. Ti scrivo da una riva.»