Lettera al padre

Articolo di Frank Iodice

Queste sono cose che ormai non si fanno più, i bambini chiamano i genitori per nome e non hanno bisogno di consigli perché tutte le risposte alle loro domande sono in quegli apparecchietti portatili che hanno sempre in mano, risposte alle quali, tuttavia, non saranno capaci di dare un senso. La ricerca di un senso sta diventando, insieme a quella della semplicità, la mia ragione di vita e, di conseguenza, la ragione per la quale scrivo libri e per la quale, oggi, scrivo a te.

L’infanzia è sempre bella quando proviamo a ricordarla, come diceva Freud, i ricordi brutti finiscono nell’immondizia assieme alle scarpe rotte, che, in ogni caso, si potrebbero sempre riparare. Quando ero bambino ti osservavo per apprendere a muovermi come te, il modello di un figlio maschio normalmente è il padre, potrebbe anche essere qualcun altro ma nel mio caso eri tu. E il rumore dei tasti del tuo computer vecchio modello, tra le scartoffie della redazione del giornale, è sempre il più forte quando ripenso ai primi anni in cui mi avvicinavo a questo mondo solo apparentemente fatto di parole, senza sapere che queste, da sole, non avevano molto valore.

Perché la letteratura vera è fatta di vita e non di parole. I rumori e gli odori risiedono in due zone differenti del cervello, anche questo lo diceva Freud, ma diceva un sacco di altre cose e non tutte per fortuna erano esatte, perché adesso ripenso a quel giornale e alle mie dita piccole che imitavano le tue senza scrivere nulla sullo schermo nero, ma non sento alcun odore, sento soltanto questo rumore immutato.

Per anni ho dimenticato quella sensazione, facevo altro e scrivevo a penna, di nascosto, bisognava cercare un lavoro vero, non potevo diventare uno che scriveva in un giornale fino a mezzanotte e quando tornava a casa litigava con sua moglie perché portava con sé soltanto sorrisi e mai uno stipendio decente. Lei, per proteggermi da questa maledizione, mi teneva lontano dalla tua macchina da scrivere e io la ascoltavo, fino a quando un giorno in cui ero fuggito da scuola, dopo una delle mie tante fughe insomma, ho deciso di diventare come te. Non sapevo in che modo avrei scritto, né su quali supporti, né tanto meno quale genere letterario… il genere letterario, un’altra invenzione simpatica di chi decide in quale recinto pascoliamo noialtri.

Tu invece mi hai insegnato che bisogna pascolare fuori dai recinti, a non pensare alla forma che altri daranno alla nostra storia mentre la scriviamo, e mi hai incoraggiato quando ho deciso di diventare povero, per modo di dire, giacché ormai è difficile anche diventare poveri, quando ho deciso, insomma, di non dedicarmi ad altre carriere e scrivere le mie storie a qualunque costo.

Mentre ti vedo allontanarti stanco nella stradina del paese in cui vivi, da solo, perché anche tu non hai voluto vendere la tua libertà, ti scrivo queste righe affinché ogni bambino comprenda un giorno che nel suo apparecchietto portatile non troverà altro che tante belle parole, ma quelle da sole, come ho già detto, non valgono proprio nulla.

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