Da qualche tempo le Nazioni Unite (e i suoi organismi operativi) sono oggetto di pesanti polemiche. Ultima ma non l’ultima, nelle scorse settimane, quella del presidente degli Stati Uniti d’America rivolta all’OMS che ha formalizzato l’uscita dal paese dall’Oms a partire da luglio 2021. David Nabarro, inviato speciale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul Covid-19, ha definito questa scelta qualcosa di “veramente spiacevole”.
“Il mondo – ha detto Nabarro – sta affrontando una grave crisi sanitaria, è stata estremamente dura negli ultimi sei mesi e temo che peggiorerà molto nei prossimi sei mesi. Abbiamo ancora molto da scoprire su questo virus e su come affrontarlo. Ed è davvero spiacevole che il Paese più importante, in termini di dimensioni del bilancio dell’Oms, abbia deciso di ritirarsi”.
Una decisione quella di Trump che ha scatenato pensati reazioni politiche all’interno degli USA: “Gli Stati Uniti si uniranno di nuovo all’Oms nel primo giorno della mia presidenza”, ha detto il candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden. L’accusa rivolta dal presidente americano sarebbe quella di essere troppo lenta, troppo “tiepida” e troppo filo-cinese nella gestione dell’epidemia. Ma le vere cause dell’annuncio di Trump potrebbero essere altre. Legate al controllo di questo organo importantissimo delle Nazioni Unite e al peso sempre minore che gli USA hanno sulle Nazioni Unite.
Per capire come si è giunti a questo punto è necessario fare un passo indietro nel tempo. All’1 Gennaio 1942, quando i rappresentanti di 26 nazioni in guerra proclamarono la propria adesione alla Dichiarazione delle Nazioni Unite. Poco dopo a questi si aggiunsero altri 21 paesi. Di unire i paesi in un gruppo coeso si era già parlato nell’agosto 1941 in un incontro sulla nave da guerra britannica HMS Prince of Wales nell’Oceano Atlantico al largo dell’isola di Terranova tra il Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt ed il Primo Ministro britannico Winston Churchill, nel quale sottoscrissero la Carta Atlantica, un insieme di principi di collaborazione internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza.
Il primo utilizzo ufficiale del termine “Nazioni Unite”, suggerito dal Presidente Roosevelt, però, sarebbe da far risalire al 1942. Un anno dopo, durante la Conferenza di Mosca alla quale parteciparono i rappresentanti di Regno Unito, Cina, Unione Sovietica e Stati Uniti venne firmata la Dichiarazione sulla Sicurezza Generale (Declaration of the Four Nations on General Security) nella quale si prevedeva la creazione di un’organizzazione internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza. Pace e sicurezza divennero gli obiettivi (un po’ come ambiente oggi) degli incontri annuali che, anno dopo anno, videro i capi di stato riunirsi (nonostante la Seconda guerra mondiale in atto).
La nascita ufficiale delle Nazioni Unite avvenne solo nel 1945 a guerra conclusa con la ratifica dello Statuto da parte dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: Cina-Taiwan, Francia, Unione Sovietica, Regno Unito e gli Stati Uniti e degli altri 46 firmatari.
Da allora le Nazioni Unite sono cresciute sia come numero dei dipendenti (oltre 50mila) che come partecipazione e presenza nei paesi del mondo (oltre 190). Decine le organizzazioni che fanno parte delle NU e che fanno capo a sei organismi principali: l’Assemblea Generale, il Consiglio di sicurezza, il Consiglio economico e sociale, il consiglio di amministrazione fiduciaria, la Corte internazionale di giustizia e il segretariato delle Nazioni Unite. Tantissime le agenzie specializzate, come il Gruppo della Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale della sanità, il Programma alimentare mondiale, l’UNESCO e l’UNICEF. Tantissime anche le organizzazioni non governative hanno ottenuto lo status consultivo.
Un organismo complesso e ormai punto di riferimento a livello globale. Per questo motivo, l’attacco del presidente Trump ha sorpreso non poco. Molti hanno parlato del problema delle fonti di finanziamento dell’Oms e delle pressioni che potrebbe aver ricevuto dall’esterno. Altri hanno parlato di una oggettiva difficoltà di gestire la pandemia a fronte di scelte diverse adottate dai governi di paesi forse più interessati a tutelare l’economia che la salute dei propri cittadini.
Quello che è certo è che, se da un lato, le NU erano (e rimanono) il punto di riferimento per la gestione di problemi a livello globale, dall’altro, alcune decisioni sono state a dir poco discutibili. Come quella di spostare la soglia della povertà assoluta da 1,5 a 1,9 dollari al giorno a persona. Premesso che un dato unico a livello globale non ha molto senso (sarebbe molto più corretto sceglie re un dato relativo al paese di appartenenza o al costo della vita, ma le NU “devono” rimanere referenti globali, quindi…), aver deciso, nel 2018, di spostare quella soglia ha sollevato molte polemiche.
Sono in molti, infatti, ad aver accusato le NU di volere in qualche modo nascondere la realtà. Spostare la soglia di povertà più in alto ha fatto sì che, da un giorno all’altro, milioni di persone non venissero più classificate come in condizioni di povertà estrema ma semplicemente povere.
E in un mondo in cui spesso le notizie vengono presentate (e lette) non in modo approfondito, ma per mezzo di brevi titoli, potrebbe aver indotto a pensare che la situazione era migliorata. Niente di più sbagliato, come sanno bene anche i ricercatori delle NU: la povertà sta aumentando e sta aumentando il gap che esiste tra ricchi e poveri (in termini tecnici, sta aumentando l’indice di Gini) a livello globale.
Una scelta discutibile quella fatta nel 2018. Ma che non è l’unica. La FAO è l’organizzazione all’interno delle NU che si dovrebbe occupare del problema e della fame nel mondo. Nei giorni scorsi, il nuovo rapporto State of Food Security and Nutrition in the World 2020 realizzato proprio dalla FAO (Food and Agriculture Organization), in collaborazione con IFAD (International Fund for Agriculture Development), UNICEF (United Nations Children’s Fund), WFP (World Food Programme) e WHO (World Health Organization) ha detto che il numero delle persone che hanno fame nel mondo è cresciuto, ma al tempo stesso che il numero di persone in condizioni di fame estrema non è quello riportato sempre nei rapporti della FAO negli anni precedenti ma molto più basso: nel 2019 sarebbero 690 milioni persone a fronte di oltre 800 milioni nel 2018 e nel 2017 (e con un trend crescente).
A sorprendere non solo la decisione dei ricercatori di aggiornare il PoU retroattivamente, “cancellando” con un semplice colpo di spugna 140 milioni di affamati dai dati statistici precedenti. Una decisione difficile da condividere e che potrebbe apparire come un tentativo, peraltro maldestro, di coprire la situazione reale, di nascondere la realtà disastrosa. Specie in vista del peggioramento previsto per i prossimi mesi.
Ma non tenere conto di fattori strettamente collegati con la malnutrizione come la situazione socio economica e l’aumento della povertà. A fare chiarezza su questi numeri, per fortuna, è stato un altro esperto delle NU Philip Alston, Relatore Speciale delle NU sulla povertà estrema e i diritti umani, che ha dichiarato che “Anche prima della pandemia, 3,4 miliardi di persone, quasi la metà del mondo, vivevano con meno di 5,50 US$ al giorno”. “Si prevede che COVID-19 spingerà centinaia di milioni nella disoccupazione e nella povertà, aumentando nel contempo il numero a rischio di fame acuta di oltre 250 milioni.
Ma il record abissale della comunità internazionale sulla lotta alla povertà, alla disuguaglianza e al disprezzo per la vita umana precede di gran lunga questa pandemia” si legge nel rapporto di Philip Alston. “Una dieta sana costa molto più di 1,90 US$ al giorno, la cifra stabilita come ‘soglia della povertà’ a livello internazionale. Anche la dieta sana più economica costa cinque volte più di una dieta ad alto contenuto di amidi. Latticini ricchi di nutrienti, frutta, verdura e cibi ricchi di proteine (di origine vegetale e animale) sono i prodotti alimentari più costosi a livello globale”.
Una situazione destinata a peggiorare a medio e breve termine: entro la fine del 2020, la pandemia di Covid-19 potrebbe aver ridotto alla fame cronica (in tutti i sensi) 130 milioni di persone in più su tutto il pianeta. Un dato che conferma le previsioni che parlano della impossibilità di raggiungere l’Obiettivo Fame zero previsto dai SDGs.
La realtà potrebbe essere ben peggiore rispetto a quella riportata nel rapporto della Fao e correggere ex post i numeri non servirà a molto: sono tre miliardi e mezzo le persone che oggi non dispongono dei mezzi per nutrirsi in modo appropriato a causa della povertà. In Africa (soprattutto quella sub-sahariana), ma anche nell’Asia meridionale e perfino in America e in Europa. E le conseguenze di questa situazione saranno ritardo nella crescita, rachitismo e, dall’altro (la FAO non può negare che a fronte di un aumento delle persone che soffrono la fame cresce un altro dato negativo), sovrappeso e obesità già a partire dalla prima infanzia.
Da un lato poveri sempre più poveri (ma che le NU non indicano come in povertà estrema) senza accesso al cibo o costretti a nutrirsi di cibo-spazzatura, spesso l’unico accessibile a chi non ha soldi. Dall’altro, in Occidente ma anche in molti paesi a Basso-Medio Reddito (LMIC, Low-Middle Income Countries), fame, povertà e ricorso a cibi ultraprocessati con profili nutrizionali sbagliati che farà crescere il rischio di malattie (come dimostrano numerose ricerche scientifiche) e la percentuale di persone sovrappeso.
Viene da chiedersi fino a quando cambiare i dati basterà a far sembrare che, sì, le cose vanno male, ma che i governi del pianeta stanno lavorando per migliorare la situazione a livello globale. E lo stanno facendo seguendo le indicazioni delle Nazioni Unite.