Storia di una Capinera, romanzo epistolare di Giovanni Verga, fu scritto tra il giugno e il luglio 1869 a Firenze. Il 25 novembre 1869, tornato temporaneamente a Catania, Verga spedì il romanzo a Francesco Dell’Ongaro, il quale ne rimase soddisfatto al punto da riuscire a farlo pubblicare dall’editore Lampugnani nella sua sede di Milano. Al 1871 risale, perciò, la prima pubblicazione ufficiale del romanzo.
Il romanzo tratta il tema della monacazione forzata; di sicuro nella sua memoria agiva la tradizione letteraria precedente, che annoverava precedenti come, naturalmente, la Gertrude manzoniana e come l’atmosfera del convento nell’Adelchi. Inoltre, probabilmente, la storia prende spunto da un episodio autobiografico vissuto dal Verga in età giovanile. L’episodio risale al 1854-1855 quando, in seguito all’epidemia di colera che si era scatenata a Catania, la famiglia Verga si rifugia nelle campagne di Tebidi, una località tra Vizzini e Licodia Eubea. L’autore, all’epoca quindicenne, si innamorò di Rosalia, giovane educanda del monastero di San Sebastiano (Vizzini), dove era monaca anche sua zia.
Verga cercò di documentarsi il più possibile scrivendo da Firenze lettere alla madre per conoscere con esattezza le consuetudini dei conventi presenti a Catania, in modo da essere sempre veritiero nel suo racconto.
Per questo romanzo “intimo”, così definito dal Verga stesso, egli decise di utilizzare la forma epistolare che riesce ad esprimere meglio le condizioni di dolore e oppressione della protagonista Maria.
Molti critici hanno rivelato all’interno del romanzo varie contraddizioni e zone oscure, che sembrava che Verga non fosse in grado di amalgamare interamente, mentre invece aveva il deliberato proposito di non spiegarle, anzi di evidenziarle proprio con questa tecnica. Il Verga introdusse il racconto spiegando il motivo che lo ha portato a intitolarlo Storia di una capinera:
Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia; ci guardava con occhio spaventato; si rifugiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell’azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l’ala e l’indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete. Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un’infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l’amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed era morta.
Ecco perché l’ho intitolata: Storia di una capinera.
Anche in questo romanzo troviamo l’analisi di una forte passione e del dramma di questa giovane donna, rimasta orfana di madre e rinchiusa all’età di sette anni in un convento di Catania, destinata a diventare monaca di clausura a causa dell’indigenza economica del padre. In seguito all’epidemia di colera che nel 1854 colpì Catania, Maria ha l’occasione di trasferirsi nella casetta del padre a Monte Ilice e di vivere con la famiglia, di cui fanno parte il padre con la sua seconda moglie, la sorellastra Giuditta e il fratellastro Gigi. A Monte Ilice, Maria incomincia un lungo scambio epistolare con Marianna, anche lei educanda del convento, nonché la sua migliore amica e confidente, tornata a casa dai genitori in occasione del colera.
A poca distanza dalla casa di Maria abitano i Valentini, molto amici della sua famiglia e con i quali trascorrono parecchio tempo. Maria diventa amica intima di Annetta, figlia maggiore dei Valentini e sua coetanea e conosce il figlio maggiore, Antonio, che tutti chiamano Nino. Maria e Nino nei giorni trascorsi insieme hanno occasione di familiarizzare, e nel cuore della giovane si insinua un sentimento del tutto nuovo: l’amore.
Grazie all’esame introspettivo a cui la spinge la corrispondenza con Marianna, Maria riesce poi a svelare la natura del suo malessere. La situazione peggiora quando Nino le fa capire di ricambiare gli stessi sentimenti, quindi Maria cade in uno stato depressivo quando la matrigna le ribadisce la necessità di diventare suora.
Cessato l’allarme dell’epidemia, la famiglia Valentini decide di fare ritorno a Catania. Dopo una settimana dalla loro partenza anche la famiglia di Maria ritorna in città e la povera ragazza rientra in convento, ma continua a scrivere alla sua amica Marianna, suo unico conforto.
L’isolamento del luogo conventuale acuisce la sua sofferenza, che diventa insostenibile quando Maria riceve la notizia del matrimonio di Nino con la sorellastra. Il 6 aprile 1856 Maria prende i voti e prova sempre più un senso di dannazione eterna. La poverina teme di impazzire e racconta a Marianna della presenza in convento di una suora completamente pazza, suor Agata, che da quindici anni è rinchiusa in una cella dove teme di finire anche lei. Una mattina Maria sale sul belvedere del convento e da lì scopre che può vedere la casa di Nino e Giuditta; saperlo a pochi passi dal convento le provoca una sofferenza indicibile che la porterà alla follia. Il bisogno di vedere Nino le fa tentare di fuggire dal convento, ma viene trattenuta dalle converse e, mentre lei si dibatte, viene trascinata nella cella di suor Agata; a quel punto sviene e viene portata in infermeria dove dopo tre giorni muore.
Il romanzo si conclude con la lettera che suor Filomena scrive a Marianna e con la quale le fa pervenire gli effetti personali della defunta.
Molto importante risulta analizzare l’ambiente del romanzo e capire perché Verga ha fatto certe scelte in merito. Dopo il romanzo Una peccatrice, dove l’attaccamento ai legami familiari viene sottovalutato dal protagonista, qui ci troviamo di fronte ad un concetto di ambiente “familiare” che rappresenta l’unica fonte di sostegno spirituale per una bambina isolata in un ambiente a lei estraneo. Maria, sperimentato il distacco dalla sua famiglia, la vorrebbe riconquistare non appena vi fa ritorno, ricercandola costantemente perché tanto le è mancata:
Tu sai che io fui chiusa in convento quando non toccavo ancora i sette anni, allorché la mia povera mamma mi lasciò sola!…Mi dissero che mi davano un’altra famiglia, delle altri madri che mi avrebbero voluto bene… E’ vero, sì… Ma l’amore che ho per mio padre mi fa comprendere che ben diverso sarebbe stato l’affetto della povera madre mia. Il ritorno all’ambiente domestico è segnato dal grande entusiasmo di Maria e dalla consapevolezza della rinuncia alla vita che avrebbe voluto.
Per questo notiamo nella poverina un entusiasmo infantile, espresso con un tono ricco di sentimenti nei confronti anche delle piccole cose della natura, che evidenzia una sensibilità del Verga verso la psicologia del suo personaggio: Noi abitiamo una bella casetta posta sul pendio della collina, fra le vigne, al limite del castagneto. Una casetta piccina piccina, sai; ma cosi ariosa, allegra, ridente! Da tutte le porte da tutte le finestre si vede la campagna, i monti, gli alberi, il cielo, e non già muri, quei tristi muri anneriti!.
Compare per la prima volta la consapevolezza nella sua vita monastica dell’allontanamento dal mondo, vista come una privazione ingiusta della liberta:
Ma mi pare che il buon Dio debba esserne più contento perché lo ringrazio con tutta l’anima, e il mio pensiero non è imprigionato sotto le oscure volte del coro, ma si stende per le ombre maestose di questi boschi, e per tutta l’immensità di questo cielo e di quest’orizzonte. Ci chiamano le elette perché siamo destinate a divenire spose del Signore: ma il buon Dio non ha forse per tutti belle cose? E perché soltanto le sue spose dovrebbero esserne prive?.
Il soggiorno di Maria nella casa paterna produce da un lato la comprensione della sua “diversità” rispetto agli altri e dall’altro, nel suo cuore confuso, suscita moltissime sensazioni a cui aggiungono dei sensi di colpa:
Non mi deridere, Marianna; compiangimi piuttosto; compiangimi ché son molto triste, e non so spiegarmi la mia tristezza, e non so trovarne la causa, e sono forse cattiva e ingrata verso il buon Dio che mi ha colmata di tante benedizioni, ingrata verso il mio caro babbo che si sforza di dissipare la mia tristezza con mille carezze, ingrata verso la mia famiglia, verso i miei amici….
Tutto si concentra sui sentimenti, sugli ideali, sulle passioni della protagonista e sulla reazione che il contatto con i diversi ambienti provoca in lei. La sua inquietudine aumenta e non le dà pace dal momento in cui scopre il sentimento dell’amore per un uomo, Nino. Lei non sapeva cosa fosse l’amore e questa nuova esperienza la sconvolge, e la sua sofferenza aumenta quando apprende che Nino dovrà sposare la sorellastra.
Nel dialogo con la sua interlocutrice epistolare si nota come Maria è costretta ad arrendersi al proprio destino, a provare un sentimento di isolamento che culminerà nella follia, nell’esasperazione e nel senso di colpa:
Ora mi sento tutta sconvolta… il mio cuore tenta invano di asilarsi nel pensiero della misericordia celeste… il mio peccato è mostruoso; potrò mai essere perdonata?.
Il fatto che l’attenzione del narratore risulti chiaramente indirizzata, fin dalle opere di questo periodo, alla rappresentazione dei sentimenti e delle passioni umane è elemento che permette di intravedere la linea futura della produzione verghiana. La prospettiva narrativa di ogni vicenda è circoscritta limitatamente al mondo personale e individuale dei protagonisti e porta a pensare che Verga voglia rappresentare gli eventi e l’ambiente attraverso gli sforzi che i personaggi devono affrontare per inserirsi in essi, uno stile narrativo, questo, che permette al narratore di mantenere una posizione neutrale con la realtà. Pietro in Una Peccatrice e Maria in Storia di una capinera ne sono esempi, essi cercano infatti di integrarsi nell’ambiente sociale e intanto Verga ne approfondiva lo studio dei caratteri, e ne osservava le reazioni e il funzionamento delle passioni.
Dal punto di vista linguistico Storia di una capinera risulta essere il romanzo “fiorentino” per eccellenza, non solo perché concepito e redatto nella capitale toscana, come attesta lo stesso autore, ma anche perché forte risulta essere la presenza di fiorentinismi. Questo ha accresciuto il patrimonio linguistico del Verga e ne ha allargato la competenza linguistica. Usando la lingua fiorentina, l’autore de Storia di una capinera volle consegnare una storia di ambientazione siciliana al patrimonio culturale nazionale.
Verga, soggiornando a Firenze, recepì dai parlanti molti fenomeni appariscenti, come i diminutivi o l’uso del pronome dimostrativo cotesto, ed altri termini lessicali che attirarono la sua attenzione e rimasero nella sua memoria. Il fiorentino fu mediato dal Verga da parlanti fiorentinizzati, da tempo residenti nella capitale provvisoria del Regno d’Italia, quali per esempio il Dall’Ongaro che certamente non era immune da fiorentinerie. Per quanto riguarda l’uso del diminutivo esso servì al Verga per mettere in rilievo le personali doti del personaggio, scomparendo nei momenti di maggiore tensione drammatica, quando lo scrittore dava più risalto all’azione che al personaggio L’uso di fiorentinismi in maniera vistosa e di sicilianismi in maniera
meno appariscente ma sostanziosa dà al testo una coloritura al testo, ma né l’uno né l’altro costituiscono l’ideale linguistico del Verga, perché la meta linguistica a cui egli mira è l’italiano letterario, un particolare tipo di italiano letterario aulico e di tono elevato, caratterizzato da arcaismi, che possa conferire al testo una forte patina letteraria. Verga scartava vocaboli e locuzioni della lingua parlata che gli sembravano troppo banali e adoperava lessemi e costrutti vivi solo nella lingua letteraria e scomparsi nella lingua viva. Alcune di queste scelte sono dovute a ragioni stilistiche, altre alla sua mente malata di letteratura, altre al suo gusto di scrittore che prediligeva forme proprie della tradizione letteraria più nobile e antica.
In Storia di una capinera l’italiano letterario rappresenta l’elemento fondamentale, fiorentinismi e sicilianismi sono colori che si fondono insieme per dare colore al romanzo.