Il decennio dei Novanta si era chiuso troppo in fretta, con l’entusiasmo e l’ansia di scoprire cosa ci avrebbe riservato il 2000, e con lo sguardo fiducioso ed ottimista del mondo civilizzato nei confronti del progresso. Un tuffo nel futuro, nell’ignoto e nell’imminente cataclisma socio-economico del ventunesimo secolo.
All’inizio del nuovo millennio, la bolla immobiliare, alimentata, gonfiata, deregolamentata e manipolata nei due decenni precedenti dai lupi di Wall Street e dagli sciacalli delle compagnie di investimento (Goldman Sachs, Bear Stearns, Lehman Brothers), esplose definitivamente, portando con sé un effetto domino dalle conseguenze deflagranti per la stabilità dell’economia mondiale e dalle catastrofiche ripercussioni psicologiche per le famiglie.
Paradossalmente, all’inizio del 21° secolo eravamo tornati indietro nel tempo: la popolazione mondiale correva il rischio di affrontare una nuova depressione economica. Stavamo assistendo al crollo del vecchio sistema contabile, tra la bancarotta di alcune multinazionali (crollo dei mutui subprime), la dipartita di quel modello di finanza moderna ed il triste epilogo del tanto decantato sogno americano.
All’inizio degli anni 2000, l’avidità degli anni Ottanta, dopo aver raggiunto l’apice della sua curva speculativa, stava per cadere in picchiata, nel baratro della recessione. In breve tempo, una serie infinita di frodi finanziarie trasmisero un forte e virulento (aggettivo quantomai attuale) sentimento di paura, che si andava ad aggiungere ad un preoccupante tasso di disoccupazione.
Soltanto una mastodontica manovra di salvataggio (con i risparmi dei contribuenti, nemmeno a dirlo) da parte del governo americano riuscì a salvare le banche, a far rientrare quel codice rosso e ad evitare un crac finanziario mondiale senza precedenti.
Alla luce di quei disdicevoli fatti, e nonostante il tradimento, la sfiducia e le incertezze a livello economico, occupazionale e sociale, il mondo occidentale sapeva che avrebbe dovuto, comunque, trovare forze ed energie alternative per rialzarsi da quelle macerie amministrative ed accettare una nuova (l’ennesima) sfida.
Ma se è vero che le realtà industrializzate, seppur lentamente, riuscirono a rimettersi in piedi, è altrettanto vero che da una parte i governi dell’austerità e dall’altra il graduale aumento del caro vita scoraggiarono le famiglie a fare figli e contribuirono ad un ulteriore rallentamento economico. Tutte queste prospettive distopiche, di conseguenza, incisero ed influirono drasticamente su diversi aspetti del nostro quotidiano, con l’immissione nel mercato di strategie gestionali low cost, ovviamente a discapito della qualità, e comportando un ulteriore aumento dell’età media (un pianeta popolato per la maggioranza da ultrasessantenni), un boom di divorzi senza precedenti e, come dicevo prima, un calo record del numero di figli, anche nei paesi in via di sviluppo.
Il ché non sarebbe nemmeno un male, se consideriamo il tasso di sovrappopolazione e analfabetizzazione del pianeta Terra. Eppure, il panico per il default economico non fu l’unico evento significativo del nuovo millennio. Ogni decennio che si rispetti ha le proprie mode e le proprie storie indelebili. Infatti, gli anni Duemila non furono da meno.
Ricordiamo in ordine sparso alcuni accadimenti di rilevante importanza quali il “millennium bug”, la vittoria dell’Italia ai mondiali in Germania, gli attacchi terroristici di matrice islamica rivendicati da Osama Bin Laden, capo dell’organizzazione al-Qaida (11 settembre 2001), la seconda guerra del Golfo, i disastri ambientali e l’emergenza climatica (tsunami, terremoti, incendi, uragani e alluvioni), il primo presidente afroamericano alla Casa Bianca, la bancarotta della Grecia, la nuova ondata di migranti dall’Africa e l’introduzione della nuova moneta unica europea, l’euro, in sostituzione delle vecchie valute nazionali. Quanta nostalgia vi assale quando pensate al vecchio conio?
Dal punto di vista sociale e culturale, l’Era dei “millennials” verrà ricordata per il dominio incontrastato di internet, di Google e, soprattutto, per il fenomeno globale dei social network. La società stava diventando sempre più connessa ed in maniera sempre più veloce. Stava nascendo l’epoca degli smartphone, la cui tecnologia avanzata avrebbe impegnato e trasformato il nostro tempo e le nostre relazioni in maniera irreversibile.
I nuovi orizzonti culturali stavano abbandonando la mentalità “settoriale” dei PC Microsoft, indirizzandosi verso nuove forme di comunicazione più dirette ed accessibili. Insomma, alla portata di tutti. Tutto d’un tratto, l’era analogica (CD, walkman e VHS) rappresentava la preistoria e la nuova conquista dell’umanità (paragonabile all’impatto dell’uomo sulla luna) andava verso software e hardware digitali e wireless. Un cambiamento radicale, rapido ed imprevedibile: una delle più importanti rivoluzioni dell’era contemporanea e del genere umano.
I telefoni di ultima generazione, da semplici oggetti di intrattenimento, si erano convertiti in beni di consumo imprescindibili. Un universo parallelo e virtuale perennemente on-line, racchiuso nelle ormai irrinunciabili “chat”. La magia della connessione sarebbe diventata il centro nevralgico e patologico delle nostre vite: non più come motivo di svago, bensì come vera e propria necessità. Persino mia mamma, 76enne, oggigiorno, non potrebbe più fare a meno della facilità interattiva di cui dispone un’applicazione come WhatsApp.
All’inizio dei 2000 (i cosiddetti Anni Zero), per quanto riguarda l’aspetto musicale, il genere rock aveva esaurito la spinta creativa dei decenni precedenti ed avrebbe vissuto principalmente di nostalgici revival e reunion storiche. Il grunge ed il brit pop erano morti e sepolti (al massimo si trascinavano nel rigurgito di gruppi cloni), nu metal e musica emo (come metastasi all’ultimo stadio) resistevano nei piani alti delle charts internazionali, mentre gli ultimi afflati della vecchia guardia del rock furono appannaggio di Red Hot Chili Peppers, Radiohead e Foo Fighters.
Al tempo stesso, crebbe la popolarità di una moltitudine di generi alternativi catalogati tutti sotto l’etichetta “indie-qualcosa”. Nel frattempo, qualora non bastasse il già considerevole mucchio di merda sul quale eravamo seduti, ecco che si andava ad aggiungere il successo del format dei talent show, che presto avrebbe conquistato le sinapsi interrotte del grande pubblico. In tutto questo scenario segnato da cambiamenti epocali, il music business dei volponi discografici aveva “downgradato” il rock, relegandolo a realtà underground, spostando i propri interessi ed i propri capitali verso le nuove frontiere del pop, ovvero rap, hip hop, trap, R&B ed elettronica.
Gli smartphone, in brevissimo tempo, avrebbero capitalizzato le idee futuristiche, visionarie ed innovative dei “nuovi profeti” della tecnologia (Steve Jobs, Mark Zuckerberg, ecc.) e canalizzato ogni tipo di interazione del mondo reale in quel piccolo apparecchio tecnologico touchscreen, un vero e proprio simbolo di feticismo neo-tecnologico. Social network come Friendster, MySpace, Facebook, Instagram, Twitter e TikTok hanno lanciato un nuovo concetto di cultura informale ed autoreferenziale, impostato sulla condivisione di foto, video e stati d’animo.
Le succitate piattaforme streaming stavano costruendo (sembra cosi inverosimile l’uso del verbo “costruire”) le nuove coordinate comunicative del nuovo millennio, trasformando e salvando quella che era una società morente, espandendo i propri confini, invadendo il mondo degli affari, della politica e di diversi settori industriali, ed estremizzando il remoto principio del fai-da-te. Il 21° secolo ci ha consegnato un palcoscenico virtuale in cui tutti avrebbero potuto mettere in mostra le proprie commedie e tragedie, attraverso forme croniche di voyeurismo orwelliano e piacere istantaneo usa e getta. Eravamo entrati a piè pari nell’epoca della democratizzazione dell’informazione.
Ricordiamoci i 15 minuti di celebrità che Andy Warhol aveva profetizzato in tempi non sospetti. Il nuovo trend interattivo non avrebbe fatto distinzioni di classe e di età anagrafica; da lì a poco, la società dei 2000 avrebbe idolatrato la cultura trash ed il relativismo culturale assoluto, in uno scenario mondiale caratterizzato dal riacutizzarsi delle discriminazioni razziali e dall’avvento di una piaga sociale quale il perbenismo politically correct.
Un mare magnum di analfabeti funzionali, di consumatori seriali, bulimici e compulsivi di prodotti tecnologici (sempre più all’avanguardia ed in continua evoluzione) erano pronti a sfidarsi nelle lotte nel fango dei social network ed a vomitare, senza alcun freno inibitorio, le loro “indispensabili” opinioni al mondo intero.
Qualche anno fa, Umberto Eco aveva descritto il fenomeno social in modo cinico e perentorio: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”. Chi ha l’ardire e l’audacia di dargli torto? La mutazione dei nostri usi e costumi ha di fatto modificato il paniere dei consumi su larga scala, il quale ha aggiornato i propri contenuti inserendo gli smartphone ed autocertificando ufficialmente la nostra dipendenza morbosa e tecnologica, divenuta essenziale e vitale come il cibo.
Al netto delle circostanze attuali, viene da chiedersi: qual è, dunque, il prezzo da pagare per il mondo 2.0? A distanza di vent’anni da quel primo gennaio 2000 non si percepisce affatto aria di cambiamento, anzi. E questo perché ai giovani degli anni 2000 è mancata quella voglia di ribellione che aveva caratterizzato i loro coetanei dei ’70. Se c’è qualcuno che dovrebbe gridare a gran voce lo slogan “No Future”, sono proprio i millennials. Ma è più comodo conformarsi e mettere un like alla foto dell’influencer di turno, piuttosto che provare a ribellarsi contro il sistema.
Il problema serio di tutta questa faccenda è che più aumenta il tempo di connessione virtuale, più diminuisce la possibilità di interagire con persone fisiche, a discapito della creatività ed a favore del disagio. Un pericoloso controsenso contemporaneo, soprattutto se si considera la crescente difficoltà nel riconoscere e distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.