Da decenni è in atto un duro scontro tra governo brasiliano e ambientalisti. Da un lato, le autorità ribadiscono la propria autonomia e indipendenza per ciò che riguarda la gestione del polmone del pianeta, la foresta amazzonica; dall’altro le associazioni ambinetaliste denunciano una gestione smodata e irrazionale delle risorsoe natuali del Bralsile.
Difficle dargli torto: nei primi quattro mesi del 2020, sono stati abbattuti circa 1.202 km quadrati (464 miglia quadrate) di foresta amazzonica brasiliana, il 55% in più rispetto allo stesso periodo del 2019 (che è stato l’anno peggiore in un decennio). E le conseguenze sono già evidenti: secondo l’Osservatorio sul Clima, in Brasile, le emissioni sono aumentate del 10-20% rispetto al 2018 (quando sono state misurate l’ultima volta).
La più grande minaccia alla foresta pluviale amazzonica deriverebbe dall’allevamento smodato di bestiame. Nel 2009, Greenpeace presentò un rapporto con il quale denunciava il comportamento di alcuni “giganti” della carne colpevoli di acquistare carne da allevatori responsabili di disboscamenti illegali.
Pochi giorni fa, Greenpeace ha pubblicato un nuovo rapporto, frutto di tre anni di ricerche, nel quale denuncia che poco è cambiato da allora: molte piccole imprese invadono abusivamente parti della foresta amazzonica, abbattono alberi secolari (con danni incalcolabili sull’ambiente), vendono il legname e usano il terreno disboscato per allevare bestiame che poi vendono alle grandi imprese. Le quali, dal canto loro, fingono di non sapere da dove proviene parte della carne che ricevono.
Pensati le responsabilità del governo che dal canto suo continua a rilasciare dichiarazioni controverse sulla foresta amazzonica. Bolsonaro ha annunciato di voler ritirare il Brasile dall’accordo sul clima di Parigi e ha licenziato il capo dell’Istituto brasiliano di ricerca spaziale, l’ente governativo incaricato di monitorare la deforestazione. Il Ministro degli Esteri brasiliano, Ernesto Araújo, è andato oltre e ha definito il cambiamento climatico un complotto di “marxisti culturali”. https://www.theguardian.com/world/2018/nov/15/brazil-foreign-minister-ernesto-araujo-climate-change-marxist-plot
Ma la situazione potrebbe cambiare a breve: Daniel Cesar Avelino della Procura della Repubblica Federale del Brasile (MPF), ha aperto un’inchiesta che ha già avuto risultati notevoli. “Sappiamo che l’unico principale fattore di deforestazione in Amazzonia è il bestiame. Vogliamo che tutte le aziende che fanno parte di questo distruttivo catena economica responsabile dei loro crimini economici”. MPF ha anche chiesto un risarcimento di milioni di dollari per “crimini ambientali contro la società brasiliana”.
Tra le aziende coinvolte anche alcune di quelle finite nel mirino di Greenpeace già nel 2009. Multinazionali che da un lato dichiarano di avere sotto controllo i propri “fornitori diretti” (una di queste, JBS, ha affermato di monitorare ogni giorno più di 50.000 potenziali allevamenti di bestiame e di averne già bloccati più di 8.000 a causa della non conformità); dall’altro, però, continuerebbero a servirsi di “fornitori indiretti” (fattorie che allevano bovini che poi vendono ad aziende che a loro volta forniscono la carne alle multinazionali).
Il polverone sollevato da Greenpeace ha raggiunto anche le stanze della finanza. E molte di queste sembrano voler restare “pulite”: Nordea Asset Management, una delle società di investimenti del più grande gruppo di servizi finanziari dell’Europa settentrionale (controlla un fondo da 230 miliardi di Euro), ha detto di aver cancellato JBS dal proprio portafoglio proprio a causa dei legami del gigante della carne con le fattorie coinvolte nella deforestazione dell’Amazzonia, (ma anche per i passati scandali di corruzione).
“L’esclusione di JBS è piuttosto drammatica per noi perché proviene da tutti i nostri fondi, non solo da quelli etichettati ESG”, ha dichiarato Eric Pedersen, responsabile degli investimenti “responsabili” (il marchio ESG garantisce gli investitori circa gli standard “ambientali, sociali e governativi” utilizzati per valutare la sostenibilità e l’impatto sociale di una società per gli investitori).
Ma non basta: Nordea ha anche rivolto i propri attacchi verso il governo brasiliano: lo scorso anno, dopo la crisi amazzonica, Nordea aveva sospeso l’acquisto di titoli di stato brasiliani. Lo stesso ha fatto Jan Erik Saugestad, CEO di Storebrand Asset Management norvegese, un gruppo di 29 investitori che gestisce 3,7 trilioni di dollari, che ha dichiarato di essere seriamente preoccupato dell’aumento della deforestazione e dello smantellamento delle agenzie ambientali, che starebbe “creando una diffusa incertezza sulle condizioni per investire”.
Anche banche sembrano aver preso una posizione a favore di Greenpeace: la Banca Mondiale ha dichiarato che ritirerà un prestito di 90 milioni di dollari a una delle grandi imprese coinvolte nello scandalo. In Brasile, in Europa e perfino in Cina, perfino alcune catene di supermercati hanno vietato la carne bovina proveniente dalle aree disboscate: l’Associazione brasiliana dei supermercati ha dichiarato di aver annullato i contratti di fornitura con aziende agricole accusate.
L’ultimo rapporto di Greenpeace sembra aver (finalmente) avuto l’effetto sperato. La tutela della foresta amazzonica rimane una delle questioni ambientali più delicate. Un problema che interessa tutti gli abitanti del pianeta e tutti i governi. A cominciare dal governo brasiliano, troppo spesso inconsapevole delle proprie responsabilità verso i propri cittadini (come dimostrano le misure adottate per fronteggiare la pandemia) e fin troppo accondiscendente nei confronti delle grandi industrie.
Foto: WWF