Esistono pezzi di storia di cui non si parla mai. Fatti storici finiti nel dimenticatoio. Uno di questi è la legge Pica. Per trovare una soluzione ai malcontenti diffusi dopo l’ “unione” dell’Italia, nel 1862, il governo decise di esercitare pressioni sull’Italia meridionale. Il risultato fu l’esatto opposto: nel Meridione, si diffuse la figura del “brigante sociale”, una sorta di Robin Hood meridionale, difensore e protettore dei poveri contro lo Stato oppressore.
A nulla valsero le esortazioni di molti personaggi di spicco. Il senatore, Luigi Federico Menabrea, suggerì di aiutare economicamente il Sud e realizzare opere pubbliche, ma la sua proposta non ebbe seguito. Anzi, ad Agosto del 1863, il Parlamento approvò a grande maggioranza la legge 1409 proposta da Giuseppe Pica: promulgata il 15 Agosto, la legge prevedeva l’invio dell’esercito (“contingente di pacificazione”) e l’uso dell’esercito in tutte le province meridionali (ad eccezione di Napoli, Teramo e Reggio Calabria).
Tutti i poteri civili passarono ai tribunali militari e vennero sospese le libertà costituzionali. Coloro i quali venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza troppe formalità. Le pene andavano dalla fucilazione, ai lavori forzati a vita, ad anni di carcere. La legge prevedeva anche i “pentiti”: chi si fosse consegnato o avesse collaborato con la giustizia avrebbe avuto uno sconto di pena. Per la prima volta nella legge Pica apparve il reato di camorrismo e il “domicilio coatto”.
Il tutto cancellando con un semplice colpo si penna quanto previsto dagli articoli 24 e 71 dello Statuto Albertino (la “legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della monarchia sabauda”) appena varato, proprio quello che avrebbe dovuto garantire il principio di uguaglianza di tutti i sudditi italiani. La legge Pica fece esattamente l’opposto: divise l’Italia appena unita in due zone ben distinte, Nord e Sud. Ma non basta. Come tutte le leggi varate in condizioni di emergenza, la legge Pica avrebbe dovuto avere una durata limitata (cinque mesi). Invece venne più volte prorogata e rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865.
Anzi venne estesa anche alla Sicilia, ufficialmente per ridurre la renitenza alla leva. In metà dell’Italia “unita”, si diffuse un clima di terrore che divenne oggetto di discussione in Parlamento. A Dicembre del 1863, un deputato siciliano, Vito d’Ondes Reggio presentò un’interpellanza parlamentare definendo la nuova legge una “profilassi di tipo colonialista”: “Dunque, volete sotto il Governo d’uno Statuto, introdurre tribunali non solo straordinario, ma mostruosi, perché mostruosi son quelli, nei quali negasi la difesa all’imputato, al calunniato, all’innocente” dichiarò d’Ondes Reggio in Parlamento.
Pochi mesi prima, anche il senatore Giuseppe Ferrari aveva tuonato contro quelle misure: “Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi”.
Nessuno rispose alle loro interpellanze. Anzi la legge venne applicata in modo secondo molti eccessivo: tantissimi gli arresti e le esecuzioni, spesso anche senza prove. E decine e decine furono i morti in combattimento, altrettanti i fucilati. Per non parlare del fatto che la legge Pica venne da subito accusata di incostituzionalità: non solo per la sospensione dei diritti costituzionali appena introdotti, ma perché introduceva il concetto di “responsabilità collettiva” (potevano essere adottate misure punitive a molti per i reati dei singoli) e il diritto di rappresaglia contro i villaggi. Il senatore Ubaldino Peruzzi definì questa legge “la negazione di ogni libertà politica”.
Durissimo il giudizio di Vincenzo Padula che, nel 1864, scrisse: “Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti”.
Ma la cosa più sorprendente è che la legge Pica ottenne scarsi risultati. Servì solo ad accentuare il divario economico, sociale, culturale e soprattutto politico tra Nord invasore e Sud invaso della nuova Italia “unita”. Un divario i cui segni sono visibili ancora oggi a chi sa osservare bene.
Senza contare che per tutto il periodo in cui fu in vigore la legge Pica, nelle province meridionali valse la censura militare “che copriva di fatto le operazioni sporche di tipo coloniale”. I giornalisti, sia italiani che stranieri, e perfino i parlamentari non potevano circolare nei territori oggetto delle operazioni militari. I corrispondenti dei giornali potevano inoltrare alle proprie redazioni solo quanto “lasciato filtrare dalle autorità militari”.
É passato oltre un secolo e mezzo. E a sfogliare i giornali sembra quasi di vedere, tra le righe non scritte, una nuova forma di censura. La “legge Pica” è caduta nel dimenticatoio. E nessuno parla dei danni che ha causato. Anche in occasione del suo anniversario, sembra che tutti abbiano cancellato gli effetti di questa legge. E i danni che causò all’Italia “unita”.