Regia: Alberto Cavallone. Soggetto e Sceneggiatura. Alberto Cavallone. Montaggio: Alberto Cavallone. Fotografia: Maurizio Centini. Musiche: Bach, Offenbach, Scott Joplin. Produttore. Martial Boschero per Anna Cinematografica. Distribuzione: Cinezeta. Genere: Erotico. Durata: 92’. Technicolor. Interpreti: Claude Maran (Claudio Marani), Danielle Dugas (Daniela Dugla), Joseph Dickson, Patrizia (Dirce) Funari, Leda Simonetti, Giovanni Brusatori.
Alberto Cavallone affronta di nuovo il tema della guerra in Vietnam, racconta la visione degli orrori che influenza il carattere delle persone, mette in primo piano la fotografia come strumento capace di immortalare dolore e disperazione.
Blue Movie dicono che sia stato girato per una scommessa fatta con il produttore Martial Boschero (attore protagonista) di realizzare un film in una settimana. Il Messaggero del 1/8/1977 lo presentò come “il primo superporno italiano”, lanciandolo tra curiosi di un genere che stava nascendo. L’articolo lo definiva anche “un porno politico”, “un fumetto progressista”. Blue Movie uscì nelle sale a luci rosse l’8 luglio 1978, nonostante fosse stato amputato dalla censura di quasi tutte le sequenze hard. Incassò 236 milioni, non male per un film costato solo 33 milioni. Molti critici hanno trovato assonanze con Blue Movie (noto anche come Fuck) di Andy Warhol, Sweet Movie di Dusan Makavejev e persino con Blow-Up e Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni.
Blue Movie è un film più compiuto rispetto a Dal nostro inviato a Copenaghen (1970), anche se la sceneggiatura non è molto lineare. Claudio (Marani) è un fotografo che ha lavorato in Vietnam ed è rimasto scioccato dal contatto estremo con fucilazioni, torture ed eccidi. Immagini oniriche e flashback sotto forma di ricordi accompagnano la sua vita che scorre tra belle modelle e fotografia. Claudio si è stancato di rappresentare la bellezza, preferisce i barattoli vuoti che “almeno sono inutili e non pretendono di servire a niente”. La pellicola narra il rapporto tormentato, in alcuni casi sadomasochista, che lega Claudio a tre belle ragazze, con la variante di un nero (in tempi non politicamente corretti il regista lo chiama negro) che irrompe nei vari menage.
Silvia (Dugas) è una ragazza che è stata violentata, salvata dal fotografo e tenuta in casa come un oggetto erotico, anche se non sappiamo quanto sia la follia stessa della donna a costruire gli eventi. Silvia pare schizofrenica, vede scorrere sangue al posto dell’acqua in una vasca, immagina mani che si allungano per catturarla, rivive l’incubo di una violenza carnale dove il volto del carnefice è quello di Claudio. Niente è come sembra, soprattutto nulla va dato per scontato in un film di Cavallone, intriso di riferimenti politico – filosofici. Daniela (Funari) è una bella modella che il fotografo segrega in una stanza e vive con lei un rapporto dominante – dominato, ma di fatto è una prigioniera consenziente. Daniela viene ridotta a oggetto, trattata come un animale, cosparsa dei suoi escrementi, che è costretta a bere e a mangiare. Leda (Simonetti) è la terza donna del fotografo – una provinciale annoiata dalla vita – che viene recuperata in un bar e assunta a servizio come assistente.
Il regista spiega il titolo Blue Movie nella frase di lancio: “Quando l’Olanda oltrepassò ogni limite, nacquero le pellicole blue, le blue-movie, oggi per la prima volta una blue-movie varca la soglia di un cinema italiano”. Blue Movie servirebbe – nelle intenzioni del regista – a stigmatizzare il mercato del porno, ma in realtà anticipa la svolta hard di Cavallone ed è un film molto estremo, in alcune copie persino addizionato di inserti porno. L’incipit è sulla falsariga di un erotico spinto, scioccante come ogni sequenza iniziale di un film di Cavallone, che raffigura una violenza carnale in un bosco.
La musica classica composta da pezzi di Bach, Offenbach e Scott Joplin accompagna un gelido crescendo di orrore claustrofobico e di situazioni malsane. Il clima è torbido, raffigurato da scarne suppellettili e da un povero arredamento fine anni Settanta con punte da pop psichedelico. Il ruolo delle bambole chiuse nelle teche di vetro dovrebbe rappresentare la prigionia volontaria delle compagne. I barattoli vuoti significano l’inutilità marxista della merce, paragonata agli escrementi, in un messaggio anticonsumista che coinvolge lattine di bibite famose e pacchetti di sigarette che raccolgono merda. La misoginia e il sadismo del fotografo sono lampanti, così come le ragazze sono succubi e masochiste, ai limiti della schizofrenia.
Dirce Funari (1957), lanciata da Joe D’Amato ne Il ginecologo della mutua (1977) e spesso presente in film erotici ai limiti dell’hard, interpreta il suo ruolo più estremo. La sua Silvia è molto nuda, fotografata nella provocante bellezza da ventenne, con il pube in primo piano, in alcune sequenze ricoperta da escrementi, oppure intenta a defecare. La Funari si ricorda anche per un paio di fellatio simulate e per un crescendo di degradazione fino al massacro finale. Da sottolineare che le immagini della Funari spalmata dei suoi escrementi si alternano a frammenti di un mondo movie vietnamita a base di fucilazioni, corpi massacrati e torture. Orrori del passato e incubi presenti in un crescendo pasoliniano da girone della merda.
Brava anche la sconosciuta Danielle Dugas (Daniela Dugla), nei panni di una ragazza violentata che finisce per uccidere la rivale Silvia (“Non sei mai esistita! Mi libero della tua presenza!”) e il suo aguzzino, soprattutto nelle sequenze oniriche e fantastiche. Joseph Dickson è il nero che se la fa con Leda Simonetti, la ragazza incontrata nel bar che asseconda le manie del fotografo. Due attori alla prima esperienza, forse unica, a quel che ci è dato sapere. Claudio Mariani è un buon protagonista maschile: “Amo la paura stampata sui visi. Non sopporto la bellezza”. Tratta le donne come barattoli e le spinge verso il baratro delle depravazione, fotografandole con bambole in bocca oppure mentre defecano e orinano. Molti riferimenti a De Sade e cinematograficamente parlando al Salò (1975) di Pasolini, ammiccato anche da una fotografia sporca, graffiata, gelida e da sonorità intense che sottolineano situazioni disturbanti. Il finale è molto ermetico con il fotografo che rivede le foto delle donne uccise ed è consapevole di essere l’ultima vittima di un crescendo di follia.
Rassegna critica. Pino Farinotti: “Ennesima pellicola erotica di Alberto Cavallone. Le aberrazioni sessuali sono sottolineate dalla musica di Bach e Offenbach”. Marco Giusti (Stracult): “Sesso estremo e bataillismo alla Cavallone. Girato in una settimana, montato in otto giorni, il film a minor costo che ha girato Cavallone. Molte le scene truculente”. Paolo Mereghetti (due stelle, nonostante tutto): “Versione sadica della poetica degli oggetti di Antonioni, da Blow Up a Zabriskie Point, e variazioni sui temi di Salò e di Sweet Movie: un film malato e disturbante, refrattario a qualunque ammiccante recupero trash, cui l’approssimazione e la povertà della messa in scena non fa che aggiungere disagio. Punto terminale di un cinema dove l’avanguardia si confonde con la serie C (e brevi momenti hard).
Per chi pensa di essere rotto a ogni esperienza”. Interpretazione autentica del regista (intervista a Nocturno Cinema): “È la storia di un fotografo che a un certo punto si stufa di fotografare barattoli della Coca Cola, che schiaccia, che distrugge… cioè, non vuole più quello che gli altri considerano il bello e in questa sua mania sevizia e annichilisce una donna, per farla diventare un animale. Poi questa lo ammazzerà… È un film interessante, che mi è piaciuto molto e che, come dicevo, ha avuto un bel riscontro; a Milano, ad esempio, uscì due volte in prima visione, una volta per un mese e la seconda per quindici giorni”.