Campeggiava nel nostro salotto di casa come un antico cavaliere. Una cassa era posizionata subito dopo la porta, l’altra in fondo alla stanza. In mezzo, su un tavolino, il piatto e la radio. Sfrigolando, la radio captava stazioni di tutto il mondo. Profumava di antico, profumava di eleganza, profumava di whisky e sigari, profumava di promesse, lo stereo di casa. Prima che la puntina si ammutinasse, senza mai più essere riparata o sostituita, ci consumavo i mie pomeriggi, sulla collezione di mio padre all’inizio, poi sui dischi che ho iniziato a comprare con i miei poveri risparmi (quelli di mia madre in realtà, instancabile finanziatrice di tutte le mie giovani passioni).
Quando lo stereo collassò, toccò alle cassette. Maledette cassette, erano la mia disperazione. Io una cassetta non la ascoltavo poche o molte volte: la ascoltavo continuamente, all’infinito, la usuravo, la sfinivo, la massacravo. E arrivava sempre il momento in cui il nastro si ribellava alla mia ostinazione e fuggiva dal suo incerto binario, attorcigliandosi, ingarbugliandosi, lacerandosi, trasformandosi in una matassa fragilissima, resistendo ai miei disperati tentativi di far fare a quella
eterea, indifesa, pellicola il percorso inverso. Rammendavo i nastri impazziti con minuscoli, chirurgici, innesti di scotch, accettando che certe canzoni fossero amputate. La più “accidentata” delle mie cassette? La terza del Live 75-85 di Springsteen, quella che partiva con un’esplosiva Born in The U.S.A., l’incredibile, emozionate, ribollente, muscolare, ingresso nel mondo del Boss, quello in cui la sua follia si dispiegava (e dispiega ancora oggi, a 70 anni, è il caso di dirlo, suonati) liberamente: i live. (“Ehi bootleggers, fate girare i vostri nastri”).
Mettetevi comodi, tra poco vi parlerò del Boss. Nella mia educazione musicale c’è stata una fase innominabile, oscura, vergognosa. Il monopolio degli ascolti casalinghi è saldamente nelle mani di mia sorella, di un anno e mezzo più grande di me. Lei decide, lei amministra, lei preme il pulsante del mangianastri, lei registra le classifiche che passa la radio. Un indizio: dentro quel passato innominabile svolazzavano una maglietta fine e un passerotto che non doveva andare via.
Dimenticate subito tutto e andiamo avanti. Arriva finalmente il primo strappo, la folgorazione, la mia prima categorica affermazione identitaria. Perché prima di Bruce Springsteen, prima di Lou Reed, prima di Bob Dylan, c’era stato lui. Prince. Il razzo che esplode e il figlio che se arriva lo chiameremo Natale. Prince che si esibiva in calze da donne. Prince che significava, di più, incarnava una triade spaventosa e ammaliante.
Trasgressione. Sesso. Peccato. La fase Prince durò poco. Non ho mai smesso di amarlo, sia ben inteso. Ma avevo bisogno di definire la mia identità, non di confonderla. Avevo bisogno di altro. Avevo bisogno di identificarmi. Avevo bisogno di staccarmi da mio padre e attaccarmi, come una figurina Panini, a qualcun altro, a qualcosa d’altro. Avevo bisogno di costruirmi un’immagine che cancellasse quello che ero: uno mucchietto di ossa. Un ragazzino magro come una sottiletta. Bruttino, timido, contorto, introverso, incapace. Goffo.
Avevo bisogno di altro. Avevo bisogno di separarmi dal bambino che ero e di sentirmi uomo. Avevo bisogno di forza rabbia vitalità avevo bisogno di liberare il maschio che premeva dietro il bambino. Quella parole furono le scintille di un fuoco che non si è mai spento. È così che è iniziato e non è mai più finito il mio amore per Bruce Springsteen.
Born In The U.S.A. non è una canzone: è una dichiarazione di guerra. È guerra, guerra allo stato puro. È guerra che torna a casa, è guerra che ti ritrovi nel vialetto che porta a casa, tra le biciclette e le cassette della posta. È la guerra che urla dalle ferite e dalle cicatrici del reduce del Vietnam, guerra che urla dalla carrozzella su cui è seduto Ron Kovic.
Pensavate che la guerra si combattesse a migliaia di chilometri di distanza? Che la avevate esorcizzata per sempre? Che non si sarebbe mai rimaterializzata? Pensavate male. Bruce si è incaricato, a un certo punto della sua vita, di sfasciare quella illusione. Di svelare il trucchetto. Di smontare il meccanismo. A un certo punto ha iniziato a urlare quella guerra. Perché ha deciso di farlo, lui che il Vietnam l’ha schivato per il rotto della cuffia? Perché Bruce è un uomo in guerra con se stesso. Bruce ha urlato contro il suo Paese, ha urlato contro suo padre, contro i padri, perché è un uomo in guerra contro se stesso. E io sono come lui.
estratto dal libro “Mio padre odiava il rock’n’roll” (Arcana)