Negli anni ’90 lo scenario culturale stava cambiando pelle, si stava trasformando in qualcosa di antinomico rispetto al decennio precedente: il tema predominante non era più l’edonismo “piume e paillettes” in tutta la sua parossistica ed ostentata opulenza oversize, bensì l’esaltazione introspettiva del disagio, dello spleen, del mal di vivere curtisiano, della crisi d’identità e dell’essere umano camusiano (contemporaneamente vittima e carnefice del suo tempo), come Mersault, sempre più straniero in terra propria.
Già a metà degli anni 80, in anticipo rispetto al fuoco sotterraneo che stava emergendo in quel di Seattle, il tessuto sociale dell’epoca aveva scrutato un nuovo cambiamento all’orizzonte; voleva lasciarsi alle spalle la zavorra delle sovrastrutture conformiste (o quantomeno il nobile intento iniziale era quello), per affacciarsi come controcultura alternativa, critica e reagente, nel tentativo di spogliarsi di ogni ipocrisia obsoleta e mostrandosi in tutta la sua rabbia essenziale, con tutte le sue debolezze, fragilità e paure.
La società post Ottanta stava cambiando e se n’era accorto anche Melvin in Qualcosa è Cambiato. Da lì a poco, nel pieno del suo declino spirituale, la società moderna stava allentando il suo legame con la terra promessa della cultura religiosa per muoversi verso la ricerca di derive agnostiche, rimettendo in discussione l’egemonia mediatica della Chiesa, per quanto si tendesse, nella maggior parte dei casi (chissà se per un reiterato timore reverenziale o per semplice convenienza dettata dalla superstizione) a dichiararsi cristiani ad ogni costo.
Sta di fatto che, negli anni 90, le persone iniziarono a temere le droghe più del diavolo, poiché non erano più il male da cui fuggire, bensì la soluzione al conflitto interiore individuale nei confronti delle pressioni della società ostile, che qualcuno in sintesi chiamerebbe “sgomento”. Basti pensare al triste epilogo di alcuni dei massimi esponenti della musica grunge.
E fu così che, come accade ciclicamente, musicisti, case discografiche, e artisti in generale, sfruttarono quella situazione a loro favore, trasformandola, chi involontariamente e chi con dolo, in business.
Negli anni ’90, la depressione e le droghe sostituirono, di fatto, le pantomime sataniste, gli insulsi predicatori ed potere persuasivo della vagina del decennio precedente, divenendo, a tutti gli effetti, la reincarnazione post-moderna del diavolo.
Prendete uno come Marilyn Manson: chi meglio di lui riuscì ad adeguarsi alle suddette tematiche sociali ed a perfezionare quella nuova strategia di shock-marketing? È sufficiente pensare al successo dei suoi dischi Antichrist Superstar e Mechanical Animals.
Il canovaccio era il seguente: cavalcare l’onda del terrorismo psicologico, strategia mediatica utilizzata dai governi e dagli organi d’informazione per monitorare e controllare il linguaggio ed il pensiero delle masse di consumatori, con lo scopo di mescolare, strumentalizzare e veicolare verità e finzione all’interno di un prodotto commerciale da rivendere a quegli stessi consumatori.
Musica e politica, tutto sommato, non sono aspetti popolari così tanto distanti, così come musica e religione, e probabilmente, ripensando all’attualità, questo modus operandi potrebbe risultarci verosimilmente più familiare.
Negli anni Novanta, dunque, si tornava a trattare il tema della religione, non più trainata dal revival gospel di Bono Vox e soci o dal fanatismo pseudo esoterico, ma secondo la visione Marxista in cui la religione viene vista come l’oppio dei popoli.
Due brani quali Lithium dei Nirvana e Opiate dei Tool sono stati l’apice lirico del parallelismo tra il principio attivo e stabilizzatore di un farmaco come il litio, nei casi di disturbo bipolare, e l’influenza della fede, della religione, su quelle menti umane meno stabili ed asintomatiche. Cosicché, Kurt Cobain e Maynard James Keenan si fecero portavoce di quel messaggio nichilista.
Non è un caso che la religione, in ogni sua forma e latitudine, sia l’unico impero a non essere mai crollato: riesce a creare intorno all’uomo un mondo immaginario, millantando poteri taumaturgici e l’illusione di condizioni migliori; un macro-universo dove l’esistenza, anche se disumana, assume, paradossalmente, una percezione sopportabile e addirittura appagante.
Tutto questo per evidenziare il rapporto simbiotico tra la natura essenziale e la pericolosità della percezione personale in quella che è la realtà oggettiva, che nel mondo della comunicazione finisce per corrispondere alla realtà stessa.
La percezione delle cose diventa, pertanto, una lente d’ingrandimento che tende a decostruire ogni genere di realismo sinottico ed ogni tipo di distinzione tra sacro e profano, generando iconologie personali completamente fuori controllo.
Di conseguenza, questa pratica ormai comune ha aiutato gli individui a decriptare alcune logiche linguistiche e a far cadere vecchi tabù ma, al tempo stesso, li ha resi incapaci di comprendere ciò che invece è ovvio.