Che cosa è la normalità? Cosa custodisce, cosa vela? Cosa le cresce dentro? Quali escrescenze si insinuano nelle sue stanze, trovano ospitalità nei sogni di chi la abita, respirano nei gesti ripetuti ogni giorno, si avvinghiano ai silenzi, si acquattano nelle incomprensioni? Cosa accade dentro una casa? Che cosa è una casa?
Si aggruma attorno alle case il nuovo, straniante, romanzo di Elena Varvello (Solo un ragazzo, Einaudi, 2020). Case solide, case apparentemente felici, case improvvisate, case violate, case infiltrate dall’incomprensibile, case condannate al dolore. C’è la casa dove vivono Pietro e Sara, con le figlie, Amelia e Angela, e il figlio maschio, “solo un ragazzo”. C’è la casa di Emma e Carlo e della figlioletta Silvia, amici da una vita di Pietro e Sara, la casa che verrà sconvolta dall’invasione dell’imprevedibile.
C’è, ancora, la casa nascosta nel bosco, un surrogato di casa, un fantasma di casa, che il “ragazzo” senza nome ha costruito con materiale sottratto furtivamente ai cantieri, riempito di oggetti bizzarri, inutili che ha rubato, introducendosi nelle case dei vicini. Fuori, oltre le case, fremono il cielo gli alberi la valle (“una ferita aperta, sanguinante”): tutto partecipa, tutto sembra animato da una tensione perenne, una tensione controllata ma pronta a esplodere, gli elementi vibrano, frusciano, incombono, come un vento che ulula, tutto sembra gonfio di umori in un movimento sottile e continuo che Varvello convoca, con sapienza, quasi ad ogni frase. Nell’apparente quiete, nell’apparente solidità, si muove, rapace, “l’unghia del terrore”. E allora: che cosa è una casa? Cosa è davvero la normalità? Da chi è abitata veramente? “Facciamo tutti cose orribili”, “nessuno è nella testa di nessuno”, è la risposta che si è data, che ci dà Pietro.
Solo un ragazzo scruta il volto del male. Lo annuncia, lo insegue, quindi lo svela. Un volto elusivo, sfuggente, freddo, taciturno, senza nome, nascosto nell’ombra, annidato nei sogni. Incomprensibile. Un filo aggrovigliato alla matassa della vita quotidiana. Un ragno invisibile che secerne un veleno mortale. Si possono cogliere i segni del suo approssimarsi? Si può capire, indovinare, sorprendere la sua traccia, la traccia del male, nelle persone che ci sono più vicine, nelle persone che amiamo? Nel volto che più amiamo, che abbiamo cresciuto, nella carne della nostra carne? Si può capire, indovinare, sorprendere la traccia del male, che alligna in noi?
Nell’Eracle di Euripide, il male si impossessa dell’eroe, lo rende furioso, pazzo, omicida. È un’invasione fragorosa, orribile, irrimediabile. Dinanzi al dolore che squassa Eracle, quando la sua mente esce dalla nebbia che lo ha invaso e snaturato, suo padre Anfitrione così si appella a lui: “Figlio, mio anche nella sventura!”.
Quando nella casa di Pietro e Sara, il male ha occhieggiato, destandosi dal sonno che lo cullava, il dolore la rabbia, l’incomprensione, l’impotenza di Pietro si abbattano sul ragazzo. Gli resta una domanda, che è come un proiettile. Come un ultimo respiro.
– Che cosa sei? –
– Tuo figlio.
Alla fine è tutto qui.