La monumentale Storia del Cinema Italiano di Gian Piero Brunetta dedica poche righe a Gualtiero Jacopetti (pag. 423 – vol.4): “Un grande successo hanno i film di Gualtiero Jacopetti (il primo è Mondo cane del 1962), a cui si deve riconoscere il merito di aver scoperto e contribuito a diffondere, spacciandolo per documentario realistico, il gusto sado-masochista per lo spargimento di sangue, la brutalità, la violenza, la morbosità e ogni situazione cruenta”. È un giudizio limitante, perché il noto critico cinematografico confina Jacopetti nel campo del cinema sadomasochista.
Il Dizionario del cinema italiano del Poppi ci dice che Gualtiero Jacopetti nasce a Barga il 4 settembre 1919, comincia come giornalista e direttore di cinegiornali, esordisce nel cinema scrivendo il commento a Europa di notte (1959), celebre reportage di Alessandro Blasetti, e traducendo, per la versione italiana, un’altrettanto conosciuta inchiesta del francese Françoise Reichenbach: L’America vista da un francese (1960). Jacopetti scrive subito dopo Che gioia vivere!, diretto nel 1961 da René. Clément, una modesta ricostruzione comica dell’epoca fascista interpretata da Alain Delon, Barbara Lass, Gastone Moschin e Ugo Tognazzi.
Il successo di pubblico giunge inaspettato con Mondo cane (1961), che inaugura un genere completamente nuovo per la cinematografia europea: quello del documentario scandalistico, violento, scioccante, che con immagini di inusitato verismo, crudeli e sadiche, tendeva a impressionare lo spettatore rivolandogli aspetti sconosciuti di riti e usanze proprie di numerose popolazioni. Il critico Paolo Mereghetti distrugge l’opera, assegna una sola stella e parla di un documentario che assembla immagini ed episodi curiosi, esotici, violenti e voyeuristici, spacciati come reali ma il più delle volte frutto di montaggio o ricostruzione.
Il critico milanese giudica sgradevole e ipocrita il commento della voce fuori campo, ma affonda il coltello nella piaga affermando che in futuro Jacopetti farà di peggio. Mondo cane 2 (1962) è oggetto di ulteriore critica negativa come campionario residuale di immagini violente e ripugnanti. Il Morandini è ancora più lapidario: due film ignobili di grande successo. A nostro giudizio i due importanti critici sono troppo drastici nel condannare un intero genere cinematografico che nasce con Jacopetti e manifesta una certa originalità, riconosciuta da Pino Farinotti per il primo Mondo cane.
Jacopetti affronta l’inchiesta sull’universo femminile con La donna nel mondo (1963), che presenta il sottotitolo di Eva sconosciuta ed è dedicato alla giovane compagna scomparsa Belinda Lee. Jacopetti è soggettista, sceneggiatore e montatore, affiancato dagli abituali collaboratori Paolo Cavara e Franco Prosperi. Per Paolo Mereghetti la pellicola non merita più di una stella perché le immagini accostano in maniera assolutamente gratuita donne-sacerdote e circoli lesbici, lamentatrici funerarie di Orgosolo e ballerine di tamuré a Tahiti, prostitute in vetrina ad Amburgo e mogli in attesa di divorzio a Las Vegas, cercando unicamente l’effetto sorpresa e l’inquadratura trasgressiva.
Per Mereghetti è da bocciare anche un commento esterno che giudica nichilista, cinico e sgradevole, soprattutto irritante nella finta ironia di voler sottomessa la donna all’uomo. Il Morandini non è meno drastico quando parla di stile da rotocalco, nichilismo reazionario e finta irriverenza goliardica. I critici salvano soltanto la bella fotografia di Antonio Climati.
Jacopetti affronta il documentario etnografico, presentando l’Africa in un’ottica che gran parte della critica ha definito razzista e reazionaria. Africa addio (1966) è il risultato finale di un’analisi all’interno del continente nero e dei suoi aspetti più sanguinari della situazione post coloniale. Paolo Mereghetti boccia il film senza possibilità di appello, definendolo un documentario cinico e parziale con un commento fuori campo particolarmente qualunquista.
L’Espresso rivelò addirittura lo scandalo della finta realtà jacopettiana, perché documentò la sospensione della fucilazione di tre ragazzi neri per cambiare obiettivo alla macchina da presa. Alcuni ex collaboratori come Paolo Cavara accusano Jacopetti di mistificazione per aver premeditatamente costruito sequenze documentarie, ma l’accusa non è stata mai totalmente provata. Marco Giusti trova del buono in Africa addio, salvando l’intera opera solo per la visione del lungo trailer animato realizzato dai fratelli Pagot.
Il critico romano parla anche di una classicità trashistica e di una grandezza insita in un film che è stato il capostipite di tanti Africa movie italiani. Il Morandini detesta la pellicola al punto di non commentarla, mentre Pino Farinotti concede addirittura tre stelle, motivandole con la grande confezione tecnica. Noi siamo dalla sua parte, visto che stiamo parlando di cinema e non dobbiamo analizzare il contenuto ideologico di un’opera, ma il modo in cui viene realizzata. Va da sé che la presa di posizione ideologica di Jacopetti è molto forte e presta il fianco a vibranti polemiche.
Addio zio Tom (1971), realizzato come il precedente da Jacopetti e Prosperi, è una ricostruzione storica costruita con stile da giornalismo televisivo sul tema dello schiavismo. Il budget è molto alto, ma per Paolo Mereghetti il prodotto finale è decisamente basso, caratterizzato da un cinismo di fondo, un montaggio voyeurista e un gusto perverso per le immagini scioccanti. Il critico milanese rincara la dose e afferma che Addio zio Tom è un esempio del peggior qualunquismo razzista al punto di voler far passare per vera la tesi dell’inferiorità razziale dei neri.
Il film doveva durare 138 minuti ma sono stati ridotti a 100 dopo una denuncia per oscenità e l’obbligo di cambiare il titolo in Zio Tom. Fa molto discutere la decisione di girare il film ad Haiti accettando la collaborazione del sanguinario dittatore Papa Doc che fornisce molte comparse. Marco Giusti definisce la pellicola non male, soprattutto per le grandi scene di nudo che al tempo facevano un certo effetto. Morandini sceglie ancora di non parlare del film, mentre per Farinotti è realizzato con la scusa di raccontare lo schiavismo, ma con la precisa volontà di mostrare scene di nudo.
Mondo candido (1975) è l’ultima opera uscita al cinema di Jacopetti e Prosperi, questa volta si tratta di una fiction vera e propria, un libero adattamento del Candido di Voltaire, sceneggiato dai due registi e dal critico cinematografico Claudio Quarantotto. Per Mereghetti è il miglior lavoro di Jacopetti, visto che concede una stella e mezzo, ma il giudizio è ancora negativo: il qualunquismo filosofico fa coppia con il più scontato degli spiriti goliardici… un guazzabuglio di luoghi comuni che servono solo a far vedere un po’ di donne spogliate.
Il critico milanese conclude che si tratta di un film troppo ricco produttivamente e troppo presuntuoso per diventare un reperto trash. Marco Giusti definisce Mondo candido come una fellinata filosofica partendo proprio dal Candido di Voltaire e spaziando sul sesso, l’Irlanda e i rapporti tra arabi e israeliani.
Ritiene che sia da ritrovare come icona del trash più eccesivo, sia per il cast (Salvatore Baccaro è un orco pazzo che tenta di violentare una morta) che per le scenografie. Il film nasce con il titolo in lavorazione de La vita è bella, persino Jacopetti non lo ama molto, per averlo girato in mezzo a rapporti non idilliaci con Prosperi e con la produzione. Morandini sceglie ancora la via del silenzio, mentre Farinotti equivoca sul senso perché parla di un adattamento del Candido di Voltaire alla moda dei Mondo cane.
Il Dizionario del Poppi conclude l’analisi della figura di Jacopetti affermando che il suo cinema è da considerare una testimonianza di una certa realtà presente nel nostro secolo, magari distorta e mal presentata per eccessivo zelo e attaccamento a un’ideologia non condivisibile.
L’Enciclopedia Garzanti del Cinema recita una pesante stroncatura, viziata da una contrapposizione ideologica di fondo:“Gualtiero Jacopetti (Barga, 1919) – regista italiano. Sceneggiatore di Europa di notte (1959), di A. Blasetti, esordisce con il successo internazionale di Mondo cane (1962): crudeltà di varia natura e inserti documentaristici su costumi esotici e religiosi di varie regioni del mondo vengono montati nel solco di una ostentata spettacolarizzazione e sul filo di un commento off di raro qualunquismo e ipocrisia.
Coadiuvato da Franco Prosperi (suo collaboratore fisso) e da Paolo Cavara, replica su standard più ripugnanti (Mondo cane 2 – 1963) prima di affrontare con ottica reazionaria e fazioso cinismo (oltre al sospetto di una tendenziosa manipolazione del girato) la fine del colonialismo in Africa addio (1966). Il soggetto grottesco di ispirazione letteraria di Mondo candido (1975) ne conferma lo stile pretestuoso e delirante”.
Per fortuna che in tempi recenti alcuni autori hanno tentato una rivalutazione del regista contribuendo a realizzare un’inquadratura storica del genere mondo movies. Tra tutti citiamo Franco Grattarola di Cine 70, ma anche la redazione di Nocturno Cinema rappresentata da Manlio Gomarasca e Davide Pulici. Roberto Curti e Tommaso La Selva, nel pregevole volume Sex and violence – percorsi nel cinema estremo, edito da Lindau, perfezionano una critica accurata e scevra da pregiudizi ideologici.
Secondo i due critici il pubblico degli anni Settanta non fa distinzione tra esotismo ed erotismo, frequenta sia il documentario che la fiction, per questo motivo decreta il successo di reportage osé come Europa di notte di Blasetti. Il documentario esotico nasce come esigenza di confronto con l’esterno che indirettamente serve a raccontare un sistema di valori italiano in rapida mutazione, caratterizzato da aperture fintamente disinvolte al nord e rigidità ancestrali al sud.
Il documentario si afferma anche in una manciata di film inchiesta caratterizzati da uno stile zavattiniano come l’opera collettiva Le italiane e l’amore (1962) e Comizi d’amore (1965) di Pier Paolo Pasolini, lavori impregnati di una passione civile che non ha niente in comune con i mondo movies alla maniera di Jacopetti.
I titoli dei mondo movies presentano sempre parole chiave come sexy, nudo, notte, mondo e le pellicole seguono uno schema preordinato. Il racconto viene costruito come un mosaico che non ha niente di narrativo ma sfrutta la tensione dello spettatore per indirizzarla al frammento successivo.
Il documentario erotico non si estingue per effetto dei mondo movies, ma i due generi per un certo periodo tentano di fondersi (Africa sexy e Mondo nudo) prima che il documentario sexy si estingua, ormai incapace di soddisfare le istanze di pseudo emancipazione sessuale del pubblico borghese cui si rivolge. Il documentario sexy finisce per presentare una ripetitiva serie di strip-tease che annoia lo spettatore e alla fine anche la misoginia tipica del filone è controproducente.
La tesi abbastanza condivisibile di Curti e La Selva è che “Jacopetti spettacolarizza il film etnografico, enfatizzandone l’arbitrarietà e la tendenziosità, cogliendone la potenzialità della televisione come manipolatrice di verità, appropriandosi dei luoghi comuni più vieti (la Sacndinavia come culla del libero amore, l’equazione tra emancipazione femminile e disinibizione sessuale in La donna nel mondo) e rivoltandoli cinicamente contro i fruitori senza un briciolo della dolorosa sensibilità del Pasolini di Comizi d’amore, ma con una vis polemica debordante”.
È molto importante analizzare il cinema di Jacopetti e Prosperi senza farsi condizionare da pregiudizi e cattive letture, soprattutto dalle accuse di razzismo e fascismo che si leggono un po’ ovunque. Jacopetti non è un netturbino cinematografico, ma – come lui stesso si definisce nel corso di un’intervista – è un voltairiano patito. Forse sono proprio l’illuminismo e l’enciclopedismo di Voltaire, Diderot e D’alambert la chiave di volta per comprendere il suo cinema.
Mondo cane (1962) andrebbe visto come illusione illuministica, come ambizione di abbracciare la totalità delle conoscenze umane, catalogando gli episodi come tante voci enciclopediche. In parte può essere anche vero, ma non basta. Il documentario di Jacopetti non è mai del tutto oggettivo, ma il commento esterno cerca di far dire certe cose alle immagini. Jacopetti prosegue con lo stile sarcastico della Settimana Incom e nei suoi film usa la voce fuori campo per dare un senso prestabilito al montaggio.
Franco Prosperi è il tecnico della coppia, il suo ruolo è quello di illustrare dal punto di vista visivo, di far vedere allo spettatore usi, costumi, immagini scioccanti. Gualtiero Jacopetti cura commento e montaggio per svelare i segreti e dare un’impostazione ideologica al materiale girato. Tutto questo si chiama utilizzo a tesi del montaggio, più che documentario asettico.
Un altro elemento fondamentale da tenere presente in questi mondo movies è la ricostruzione di alcuni avvenimenti a beneficio della macchina da presa, in modo tale che reale e fasullo si intersecano e si confondono. Lo spettatore non riesce a distinguere vero da falso, anche perché spesso la finzione jacopettiana è più credibile della realtà stessa. Jacopetti è voltairiano fino in fondo, perché è convinto che le sue opere devono servire a dare un contributo per risolvere i problemi del tempo.
Curti e La Selva affermano che “l’impianto visivo crudele ed estremo del cinema di Jacopetti e Prosperi non è solo uno strumento al servizio di un sensazionalismo di cassetta, ma anche riflesso di una precisa esigenza estetica e ideologica – specie in Africa addio e nelle opere successive. Nelle opere di Jacopetti la carrellata sul nostro pianeta porta paradossalmente a un moralismo nostalgico che nasconde uno spirito antimoderno al servizio di un antiumanismo che si oppone frontalmente alla retorica e terzomondista dell’epoca”. Condividiamo in pieno.
Il mondo movie modifica il suo atteggiamento con Paolo Cavara, ex collaboratore di Jacopetti che abbandona il gruppo per mettersi in proprio, ma produce una brusca virata al genere in direzione della pura fiction. Cavara gira nel 1967 L’occhio selvaggio, un film che dimostra grande risentimento nei confronti di Jacopetti. Il protagonista della pellicola di Cavara è un regista interpretato da Philippe Leroy che non arretra davanti a niente pur di ultimare il proprio documentario-shock.
Cavara critica Jacopetti al punto di riprendere in chiave grottesca l’episodio incriminato raccontato da Carlo Gregoretti su L’Espresso a proposito di Africa addio, con Leroy e l’operatore Gabriele Tinti che fanno spostare un vietcong condannato alla fucilazione davanti a un muro bianco perché la ripresa venga meglio.
L’occhio selvaggio è scritto dal regista con Fabio Carpi con Ugo Pirro (Tonino Guerra e Alberto Moravia collaborano ala sceneggiatura), non è un mondo movie ma un film a soggetto, criticabile sin quanto si vuole, ma resta opera dignitosa e complessa che tiene in equilibrio poesia e autocritica. Cavara riflette sulla situazione contemporanea, analizza la crisi dell’occidente, critica la riduzione a mercanzia del genere umano e riflette sui meccanismi che scattano nella mente dello spettatore durante la visione. Si tratta di un’operazione metacinematografica, puro cinema sul cinema, che porta a riflettere in maniera profonda sulla manipolazione della realtà.
Jacopetti si adegua al cambiamento dei tempi e gira Addio zio Tom (1971), pellicola che sconvolge i benpensanti per il commento dal contenuto razzista e per le immagini sconvolgenti. Jacopetti ricostruisce la storia della schiavitù ma non gira un documentario, piuttosto confeziona un pamphlet su una tesi precostituita. Mondo candido (1975) è il suo ultimo lavoro ed è un ritorno a Voltaire, sia per ispirazione che per condivisione e struttura dei temi.
Jacopetti fa capire con il suo cinema che esiste una frattura insanabile tra verità e finzione: riprendere oggettivamente la realtà è impossibile, ma soltanto l’occhio selvaggio della macchina da presa riesce a ricrearla. La soluzione proposta e praticata per molti anni è stata quella di fabbricare prove per dimostrare la veridicità della realtà rappresentata, ma al tempo stesso ha decretato la soccombenza della realtà di fronte alla finzione.
Il mondo movie subisce la sua degenerazione con prodotti come Ultime grida dalla Savana (1975) e Savana violenta (1981) di Antonio Climati e Mario Morra, ma anche con Addio ultimo uomo (1978) di Alfredo e Angelo Castiglioni. I film di Climati e Morra sono vere e proprie fiction che si basano sulla spettacolarizzazione della violenza e sulla ripresa di alcuni rituali indigeni piuttosto raccapriccianti.
Il commento fuori campo è scritto niente meno che da Alberto Moravia e vorrebbe dimostrare che Rousseau si sbagliava e che le leggi naturali si basano sulla sopraffazione. Addio ultimo uomo è un documentario etnologico che documenta riti ancestrali e usanze di alcune tribù dell’Africa centrale, come culti fallici, sacrifici animali e spellature di defunti. La violenza è molto esibita, notiamo evirazioni, amputazioni, immagini di guerra e operazioni chirurgiche.
Il commento è scritto da Vittorio Buttafava. I fratelli Castiglione avevano girato in precedenza Magia nuda (1975), per documentare riti magici ancora esistenti nel nostro pianeta soprattutto in zone ancora primitive. Savana violenta viene distrutto dalla critica che lo definisce un contenitore di immagini pseudo documentaristiche tendenti al raccapricciante, al gratuitamente crudele e al sanguinario in genere.
Curti e La Selva sostengono che tutta questa serie di film riversano sugli schermi una quantità torrenziale di immagini brutali. Tutto vero. Siamo in linea con la richiesta di elementi scioccanti già pretesa dai generi horror, poliziesco ed erotico. La violenza di queste pellicole è spesso fasulla e certe atrocità sono girate per l’occasione. Hanno fatto storia l’episodio del turista sbranato dal leone in Ultime grida dalla savana e il taglio del membro in Addio ultimo uomo, anche se i fratelli Castiglioni insistono sulla veridicità. L’esperienza dei mondo movies produrrà tutto il sottofilone dell’horror cannibalico, ma anche le pellicole della serie Emanuelle Nera giurate da Aristide Massaccesi.
Lo schema vede Laura Gemser in giro per il pianeta a caccia di reportage sensazionali, ma soprattutto in Emanuelle in America (1976) si trova a contato con bestialità, orge, bordelli per sole donne e soprattutto un famigerato filmato snuff spacciato per vero al momento dell’uscita del film. Cannibal holocaust (1979) di Ruggero Deodato tira le somme di un intero decennio, è un atto di accusa verso le finzioni giornalistiche e cinematografiche, ma deriva direttamente dal mondo movie come film cannibalico che eredita la propensione alle atrocità, inserite in un contesto narrativo. Il mondo movie si stempera nel nuovo genere cannibalico, pura fiction che conserva stralci delle vecchie sensazioni.
Le ultime opere classificabili come mondo movie sono Dolce e selvaggio (1983) di Climati e Morra, Dimensione violenza (1984) del solo Morra, che certificano la morte del documentarismo cinematografico per cedere il passo a quello televisivo. Mondo cane oggi – L’orrore continua (1985) di Stelvio Massi e Mondo cane 2000 – L’incredibile (1988) di Gabriele Crisanti rappresentano il canto del cigno del genere, disastrose e indifendibili visioni di stranezze che non hanno niente del cinema jacopettiano. Le riprese dei due film e il soggetto sono di Stelvio Massi, ma il regista di polizieschi non amava quel tipo di cinema, al punto di non voler firmare il secondo lavoro costruito con gli scarti del primo.