Nirvana, il suono di Seattle al cospetto del mondo

Articolo di Andrea Musumeci

Se da un punto di vista culturale vi dovessero chiedere: “Qual è stato il disco più rappresentativo dei Novanta?” e “Qual è stato l’evento più significativo nel mondo della musica dei Novanta?”.

Personalmente, sarei portato a rispondere Nevermind dei Nirvana, alla prima domanda, ed il suicidio (con buona pace dei complottisti) di Kurt Cobain alla seconda.

Il 24 settembre 1991, i Nirvana di Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl pubblicano Nevermind, uno degli album fondamentali degli anni Novanta e della storia del rock in generale, con una delle copertine più iconiche di tutti i tempi. Il successo della riuscitissima cover del poppante in piscina, quei pochi riff essenziali, distorti ed orecchiabili, una forma di poesia cinica, struggente, dissacrante e nichilista, e la produzione eccelsa di Butch Vig furono l’asse trainante del cosiddetto Seattle Sound, il quale, in pochissimo tempo, spazzò via tutte le illusioni del decennio precedente.
E pensare che gli anni Ottanta vengono ricordati come un decennio di rinascita, di ripartenza, per via del nuovo boom economico (il secondo dal dopoguerra) che cancellò (probabilmente sarebbe più corretto dire, nascose sotto un bellissimo tappeto colorato) la recessione e l’inflazione derivate dalla “seconda crisi energetica” che colpì il mondo Occidentale tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta. Un periodo storico in cui le ristrettezze e la depressione del decennio precedente vennero sostituite da una cultura con aspettative extralusso ed extra-large, le quali, successivamente, si rivelarono soltanto una pericolosa ed ingannevole bolla economica. Nel 1989, eventi epocali come la fine della guerra fredda, la sventata minaccia atomica e la caduta del muro di Berlino segnarono la conclusione di un ciclo di opulenza e tensione e l’inizio di un altro all’insegna della libertà. In questo contesto, anche il rock era pronto a cercare nuove forme espressive e nuovi territori di conquista, pur senza dimenticare l’insegnamento del passato. E quel cambiamento, in simbiosi tra arte e vita, divenne realtà alla fine del 1991: grazie ai Nirvana, ed in particolar modo a Nevermind, il grunge divenne la nuova frontiera del genere pop. Inteso come abbreviazione di popolare.

Che poi, ad essere sincero, non mi sono mai trovato in sintonia con chi etichetta il grunge come un genere musicale. Per il semplice fatto che tutti i gruppi provenienti da quell’area non erano accomunati dallo stesso modo di suonare, né dallo stesso abbigliamento, eccezion fatta per un look sciatto e trasandato. L’unico bene comune era, invece, quella contro-cultura che stava nascendo nel sottosuolo indie di Seattle. Questo a voler sottolineare che cultura, geografia ed economia sono elementi imprescindibili per l’esegesi di una moda generazionale ed in generale per capire come l’arte sia il riflesso della società in cui si manifesta.

Il grunge, che non sapeva ancora di chiamarsi grunge, esisteva già nella seconda metà degli anni ’80; si trattava di una realtà embrionale localizzata, seppur dall’enorme potenziale, ma che con il solo supporto della SubPop e delle radio locali non sarebbe riuscita a valorizzare quel frutto, ancora troppo acerbo, al fine di renderlo più maturo e appetibile ai clienti del grande mercato. Nel 1989, ad esempio, i Nirvana avevano già pubblicato il loro album d’esordio Bleach: un disco dal sound cupo, pesante, claustrofobico, a tratti funk, psichedelico e blueseggiante, più heavy rispetto alla pulizia sonora new wave punk di Nevermind. La buona riuscita di Bleach, però, non fu sufficiente per raggiungere le vette mainstream.
Di conseguenza, serviva necessariamente l’aiuto di una major discografica per superare lo steccato territoriale e, soprattutto, per dare nuova linfa vitale al genere rock ormai saturo e per mettere di nuovo la chitarra al centro del villaggio della musica pop, dopo un decennio dominato dai suoni digitali, restituendole, così, il ruolo di protagonista che aveva avuto fino a due decadi prima, ma con il suono rudimentale e diretto del punk Stoogesiano. Tutto questo finì per trasformare il prodotto grunge nel nuovo articolo di punta del marketing musicale.

Pertanto, case discografiche e riviste di settore accantonarono le band rock e metal degli anni ’80, ormai satolle e spremute a dovere, fiutando una nuova gallina dalle uova d’oro per il business discografico dei ’90. Così, in brevissimo tempo, i Nirvana, e non solo, diventarono la band più famosa della scena mondiale, o giù di lì, e Smells Like Teen Spirit la canzone simbolo di quel decennio. Memorabile anche il video, nel quale comparivano una sequenza di luoghi comuni sulla scuola americana rovesciati in una parodia dissacrante. Kurt Cobain indossava una maglietta bicolore (verde e marrone) a righe orizzontali sopra un’altra maglia a maniche lunghe ed un paio di Converse distrutte. Un impatto visivo forte e destabilizzante che dichiarava ufficialmente morta l’epoca delle rockstar. Questo, difatti, fu un altro elemento importante che il grunge andò a modificare rispetto alle coordinate del rock del passato, ovvero l’estetica dei suoi protagonisti nella sua omologazione, in quella sorta di slogan motivazionale del “siamo tutti uguali”, rinnegando il ruolo edonista delle rockstar eccentriche e viziate.
Pertanto, l’esplosione del grunge, negli anni della vodka, significò la rivincita dei cosiddetti losers (Beck docet), assieme alla rivalsa dello spleen adolescenziale e post-adolescenziale. Disagio esistenziale, rabbia repressa ed uno stato di rassegnazione e autodistruzione diventarono le principali tematiche emotive attraverso le quali poter vomitare il proprio rifiuto nei confronti di una società già, irreversibilmente, inghiottita dal consumismo e dal capitalismo. Dunque, il grunge non fece altro che rendere impopolare il genere metal, finendo, paradossalmente, per essere trascinato nello stesso ingranaggio.

Kurt Cobain, fondatore, chitarrista, cantante, autore dei testi e leader dei Nirvana, involontariamente, si fece portavoce di quella nuova scena musicale, fino a diventare l’icona culturale di quella generazione. Le sue canzoni dicevano esplicitamente che odiava la vita e voleva morire. La sua musica era un rumoroso e doloroso lamento con il quale esprimeva la sua profonda e sincera tristezza.

“Il nostro nuovo album si intitola Nevermind, perché è proprio questo l’atteggiamento oggi più diffuso tra la gente: di fronte a tutto quello che succede, si preferisce dire “Non importa”, o “Chissenefrega”, piuttosto di agire, di reagire in qualche modo, magari prendendo una bomboletta di vernice per scrivere graffiti sui muri, o anche formando una rock band con la quale esprimere qualcosa”. (Kurt Cobain)
https://youtu.be/hTWKbfoikeg

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