Tradurre vuol dire tradire: riflessioni sulla traduzione letteraria

Articolo di Frank Iodice

Quando parliamo di traduzione, lo facciamo spesso pensando alla nostra lingua, il nostro paese, il nostro piccolo mondo, e poi alla lingua del testo originale. Ci poniamo cioè in una posizione di non-originalità, come se tradurre, importare un testo, significasse un po’ rubarlo dal suo universo linguistico e prostituirlo al nostro. Ciò che non facciamo così di frequente è pensare a quel testo come a una copia già di se stesso.

Perché parlare di copia in questi termini? Sembrerebbe un paradosso. Lo faccio perché il pensiero non nasce nella forma delle parole, questo è chiaro. Le parole vengono sempre dopo, sono una sorta di mediazione tra un mondo interiore e un mondo esteriore. Un testo scritto non è mai originale, è sempre adattato alla lingua scelta per esprimerlo. Di conseguenza, nessuno di noi è davvero fedele, nella carta e fuori. In qualche modo, siamo tutti infedeli.

La traduzione è dappertutto: la nostra vita è tradotta in tutti i suoi meandri, di continuo. Traduciamo noi stessi quando parliamo con diversi registri, quando chattiamo sui social network, quando siamo davanti a dei bambini e adattiamo il linguaggio al loro vocabolario che (quasi sempre) è più limitato del nostro. E quando cerchiamo di amare e farci amare. 

Perché tradurre in fondo vuol dire rivivere e far rivivere, non solo trasferire una lingua e un pensiero, ma un’emozione. E quasi mai la stessa emozione è rappresentata graficamente da una stessa parola.

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