Il filone cannibale prosegue con alcune pellicole girate da Aristide Massaccesi (in arte Joe D’Amato), un grande contaminatore dei generi. Le prime sono inserite nella serie porno soft di Emanuelle nera, ma contengono elementi splatter e situazioni tipiche del cinema cannibalico. Emanuelle in America (1976) è un’indagine di Emanuelle sulle perversioni sessuali, che la porta a scoprire snuff film con scene di tortura e violenze su donne perpetrati da uomini in divisa. Qui c’è una contaminazione più con il filone nazi-film (vedi i nazi-porno della serie Ilsa, la belva delle SS di Don Edmonds) che con il cannibalico, ma citiamo la pellicola per completezza e perché contiene scene davvero efferate: seni tagliati, uncini nel ventre, stupri con falli di legno e chi più ne ha più ne metta. Il vero cannibal movie della serie Emanuelle è però Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977), un film erotico arricchito da sequenze splatter e cannibalesche (come saranno anche Porno Holocaust e Antropophagus nel 1980). Questa è una delle tante pellicole girate da D’Amato sulla scia del successo del film francese Emmanuelle (l’originale va scritto con due emme!) diretto da Just Jaeckin nel 1973 e interpretato dall’affascinante Sylvia Kristel. Il film era diretta filiazione dei romanzi sconvolgenti di Emmanuelle Arsan e fu l’iniziatore di una serie di pellicole francesi con protagonista una ricca e annoiata signora sposata con un uomo d’affari, che passa le sue giornate esperimentando le gioie del sesso. La serie italiana è apocrifa e per evitare l’accusa di plagio ribattezza la protagonista Emanuelle (con una emme sola) e la identifica con una bella giornalista di colore che gira il mondo a caccia di scoop e di avventure erotiche. L’attrice simbolo di questa serie è Laura Gemser, una stupenda indonesiana dal corpo perfetto, generosamente esibito pellicola dopo pellicola.
Un anno prima di Cannibal Holocaust esce La montagna del dio cannibale (1978) di Sergio Martino. Il film, scritto con Cesare Frugoni, si avvale di un cast composto dalla bella Ursula Andress (resa famosa dai film di 007), Stacy Keach e Claudio Cassinelli. Gli effetti speciali sono del solito Paolo Ricci. Un buon film di avventura che mescola l’orrore a piccole dosi in un crescendo da incubo. Nel corso della pellicola vediamo: uccisioni sanguinarie, pasti cannibali, evirazioni e sul finire persino il corpo della statuaria Andress cosparso di liquami cadaverici. Nella pellicola confluisce tutta l’esperienza documentaristica dei mondo movies mescolata al sensazionalismo di Ultimo Mondo cannibale e alla pura avventura de Il paese del sesso selvaggio. Vediamo la trama. C’è una spedizione in Nuova Guinea sulle tracce di un etnologo scomparso (tanto per cambiare…) in un luogo tabù chiamato “la montagna del dio cannibale”. Ne fanno parte la moglie dell’etnologo e il fratello in compagnia di un’esperta guida e di alcuni portatori indigeni. Quando raggiungono l’isola misteriosa non c’è traccia dell’etnologo e l’accampamento è deserto. Vengono scoperti cadaveri e resti umani, poi gli indigeni cominciano ad attaccare e a uccidere. I nostri raggiungono una missione e vengono accolti ma le uccisioni continuano e sconvolgono il villaggio. Il capo della missione, convinto che gli uomini della spedizione siano la causa dell’eccidio, intima loro di andarsene. Durante la scalata verso la montagna del dio cannibale si aggiunge al gruppo anche il medico Manolo, esperto della zona. Nel corso del viaggio il fratello fa morire deliberatamente la guida che chiedeva aiuto e Manolo comprende che c’è sotto qualcosa di strano. Una volta raggiunta la grotta tutto è chiaro: la moglie dell’etnologo e suo fratello in realtà cercano solo un enorme giacimento di uranio per rivenderlo a potenze straniere. I cannibali, dipinti per tutta la pellicola come uomini fangosi, attaccano ancora e il fratello viene ucciso. Manolo e la moglie vengono catturati. La scena più raccapricciante è quando i cannibali servono come pasto alla donna le carni del fratello. Degna di nota pure la parte in cui lei scopre che il marito è morto e il suo corpo putrefatto viene adorato dai cannibali come se fosse una divinità, per via di un contatore geiger attaccato al corpo ancora funzionante. Gli indios scoprono una foto che ritrae la donna con il marito e ritengono anche lei una dea. Per questo la costringono a cospargersi con i liquami del cadavere del marito in un rito che per i selvaggi ha un significato liberatorio. Alla fine di tutto Manolo riesce a scappare insieme alla donna che comprende la stupidità di quel che ha fatto e si riscatta nel finale. Sono pochi i personaggi positivi del film, forse solo il medico Manolo, difensore di un mondo naturale che non vuole essere contaminato dalla civiltà. Tutti gli altri hanno un passato da far dimenticare (la guida ha mangiato carne umana e ha rapito un ragazzino della tribù cannibale), oppure scopi inconfessabili che niente hanno a che vedere con quel che dicono (la moglie fedele è in realtà un’avida cercatrice di uranio e suo fratello non esita a uccidere per denaro). La stessa natura è scrutata soltanto dal suo lato malvagio. Si riprende un pitone che divora una scimmia, un ragno gigante che aggredisce la donna, i pipistrelli che escono dagli alberi, un coccodrillo che fa fuori un’iguana. Poi ci sono gli infidi rumori notturni della giungla, i trabocchetti mortali, le scene rituali degli indigeni che squartano un’iguana e ne mangiano le interiora dopo essersi cosparsi di sangue il corpo. La filosofia spicciola di Manolo giustifica le uccisioni degli animali con la necessità: “Anche l’uomo uccide, ma lo fa ricorrendo alla menzogna e all’inganno”, dice. Saranno temi che torneranno in tutto il cinema cannibalico, sempre proteso alla ricerca di quel che di negativo si può esibire.
I cannibali di casa nostra sono meno britannici di Anthony Hopkins, non hanno la flemma di chi cucina caviale e carne umana, magari accompagnando il tutto con stufato di fave e vino Chianti d’annata. I nostri cannibali sono quasi sempre dei selvaggi mangiatori di uomini, tribù antropofaghe dell’Amazzonia che si sbarazzano di chi va a turbare la loro tranquillità. I film del filone cannibalico sono girati tra Brasile, Perù e Colombia e vogliono portare sullo schermo riti tribali di mangiatori di carne umana. Più raramente il cannibale italiano è metropolitano e ha problemi psichici. Accade con Joe D’Amato in Buio omega (1980) (un uomo reso folle dalla morte della sua ragazza la imbalsama e poi le addenta il cuore per tenerla sempre con sé) o in Apocalypse domani (1980) di Antonio Margheriti, dove i reduci dalla guerra del Vietnam contraggono un virus che li obbligano a cibarsi di carne umana. Una via di mezzo tra il selvaggio tribale e il folle la troviamo in Antropophagus e in Porno Holocaust (1980) di Joe D’Amato. Nel cinema cannibalico italiano è importante un’ambientazione tropicale ricca di immagini raccapriccianti con dei selvaggi antropofagi che le fanno vedere di tutti i colori a una spedizione di scienziati, antropologi o giornalisti. Sono film che stanno a metà strada tra l’horror e l’avventuroso.
In ogni caso dobbiamo dire che il cinema dell’orrore si limita a portare sul grande schermo i tabù diffusi e a esorcizzare un problema presente nel quotidiano. I cannibali sono sempre esistiti e continueranno a esistere, con buon pace dei benpensanti. Il cinema cannibalico italiano fornisce un’immagine raccapricciante del mondo odierno, dipinto a forti tinte, spesso anche sadiche e scellerate. Abbiamo una vera e propria apologia del selvaggio, senza raggiungere mai i limiti estremi che ogni giorno la realtà presenta.