Fotoreporter è essere svegliato alle due di notte e, pochi minuti dopo, essere già al volante in macchina e correre, correre. Come quella volta nel 1997 fino a San Giuseppe Jato e, sul luogo dell’omicidio, aspettare ore sotto la pioggia, appoggiato ad un muro, che la scientifica finisse di esaminare la scena del crimine, fare gli scatti poi ripartire alle cinque per Palermo, e ancora correre, correre in agenzia, stampare le foto e inviarle alle redazioni.
Ma è anche scoprire, qualche anno dopo, che lì, fra quelli che pensavi fossero normali inevitabili curiosi, quella notte proprio accanto a me c’era anche l’assassino, che si divertiva ad assistere ai miei battibecchi, di rito, quando cercavo di avvicinarmi troppo per fotografare Vincenzo Arato, l’uomo che lui aveva appena ucciso, mentre le forze dell’ordine mi volevano tenere lontano perché non disturbassi la scientifica. Avevo l’assassino accanto. Che tra l’altro, era lo stesso che si portò via la salma perché aveva una ditta di pompe funebri. E rideva mentre io battibeccavo coi carabinieri. Rideva.