Se si domanda ad un ragazzo cosa vorrebbe fare da grande, in molti casi la prima risposta sarà “il calciatore”. Le motivazioni che sono alle spalle di questa scelta possono essere molte, ma certamente tra queste ci sono la fama e i guadagni dei calciatori sin dalla più tenera età. Soldi provenienti da fare il testimonial per grossi gruppi e da compensi inspiegabili razionalmente. Non è un caso se tra gli sportivi più pagati al mondo ci sono molti calciatori: nel 2020, di questo elenco fanno parte Lionel Messi (con la stratosferica somma di 126 milioni di dollari – per cosa? per giocare a calcio?), Cristiano Ronaldo (con 117 milioni) e Kylian Mbappe (con 48 milioni di dollari).
Non tutti questi calciatori, però, riescono a restare al vertice una volta finita la loro carriera sportiva. Molti rimangono nel mondo del calcio. Come allenatori (di squadre più o meno famose e, di conseguenza, con i compensi più o meno elevati) o con altri incarichi. Altri cambiano completamente mestiere. Alcuni si sono dati alla politica. Altri hanno cercato di fare fortuna in altri settori, come lo spettacolo o gli spot pubblicitari.
Sono molti, però, quelli non riescono a superare questo cambiamento. Per alcuni che hanno cominciato a “lavorare” giocando a calcio sin da ragazzini, trovare un lavoro o un impiego diverso non è facile. Così come non è facile rinunciare al lusso cui si erano abituati grazie ai “salari” da favola. Per loro il rischio di crollare è forte. E le conseguenze, a volte, sono tremende.
Per gli appassionati di calcio, il nome Schillaci è un mito. La sua carriera raggiunse il culmine con i mondiali del 1990 che lo videro lui e la nazionale italiana di calcio tra i principali attori. C’è, però, un altro calciatore con lo stesso cognome: non si tratta di Totò, ma di Maurizio, suo cugino. Anche lui, negli stessi anni, giocava a calcio e da professionista. E anche lui ebbe il suo boom che lo vide passare dalla serie C, dove aveva cominciato a giocare da ragazzino, fino alla Lazio. Voluto e richiesto da allenatori famosi come Zeman. Poi, improvvisamente, il crollo. Prima i problemi fisici, con il conseguente calo nelle prestazioni in campo. Anni di sacrifici, di problemi. Anche di droga.
Un cambiamento che ha dell’incredibile: oggi Maurizio Schillaci vive da clochard, in mezzo alla strada e dorme col suo cane in vecchia macchina che, come lui, non corre più. A 58 anni gli restano solo il suo cane (per non abbandonarlo, non ha accettato di dormire al caldo, in un ricovero per bisognosi) e tanti ricordi (tra i quali diversi matrimoni e le sue figlie). “Sono in mezzo a una strada. Non per modo di dire, ma nel vero senza della parola” ha ammesso qualche tempo fa a chi lo aveva riconosciuto e gli aveva chiesto come avesse fatto a finire così. “Non ho nulla: mangio quando la gente mi aiuta a mangiare, dormo in un treno o quando mi va bene ospite da amici. Cerco un lavoro, lo cerco da tanto. Non lo trovo”. L’unica cosa che gli resta è il suo orgoglio: “Sono così perché ho sbagliato io, e oggi non chiedo l’aiuto di nessuno” ha dichiarato in una recente intervista.
In un mondo dove il tasso di disoccupazione cresce e la povertà aumenta, trovare un lavoro è difficile. Specie per chi ha dedicato la propria adolescenza a giocare a calcio, invece che a studiare. A credere che si stava realizzando il sogno di quando era bambino. Ora per lui trovare un lavoro è quasi impossibile. É dura, da un giorno all’altro, cambiare lo stile di vita al quale ci si era abituati quando si giocava. Un modo di vivere dove i soldi non hanno senso. Uno stile di vita fatto di auto e di case di lusso, di sfarzi e sprechi. E di donne, mogli, compagne che cambiano: non è facile correre dietro ai ritmi di vita di chi corre dietro al pallone ai massimi livelli.
Nessuno pensa (spesso si è troppo giovani per farlo) che non sarà sempre così. E che le opportunità per trovare un lavoro diverso, magari restando nel mondo del calcio, non sono molte.
Quando inizia il declino, magari a causa di un infortunio (magari trascurato o diagnosticato in ritardo, come la lesione al tendine che mise fine definitivamente alla carriera di Maurizio Schillaci), è troppo tardi. É allora che cominciano i problemi. Familiari (come il divorzio dalla moglie). O di altri tipi come la droga. Il tutto spesso accompagnato dal rimpianto di avere sprecato anni della propria vita e montagne di soldi in lussi inutili (come ha ammesso lo stesso Maurizio, ha avuto 38 auto: “Mi piacciono tanto, le cambiavo spesso. Non sempre nuove, a volte anche usate”). Soldi guadagnati troppo velocemente e altrettanto velocemente bruciati in investimenti andati male.
Così dal lusso, si passa alla povertà e alla disperazione. E tutti (e questa forse è la cosa che fa loro più male) finiscono nel dimenticatoio pubblico. Da essere sulle prime pagine di tutti i giornali (non solo quelli sportivi), con i fan che chiedono autografi e urlano il loro nome, si ritrovano nel vuoto mediatico. A nessuno sembra importare di loro. Nessuno sembra ricordarsi più di loro, di quello che hanno fatto per lo sport o per quella squadra tanto amata.
Alcuni, come Maurizio, finiscono per strada. Altri si danno all’alcool. L’elenco dei giocatori di calcio finiti in bancarotta è lunghissimo. Come Andreas Brehme, tra i più forti e completi terzini della storia (segnò il rigore decisivo che consegnò alla Germania il Mondiale del 1990) è finito sul lastrico e sopravvive solo grazie all’aiuto di alcuni ex calciatori gli hanno trovato un lavoro nelle loro aziende. O Romario, un altro dei nomi che riempivano le prime pagine dei giornali: anche lui è in crisi, i suoi beni sono stati pignorati e più di una volta è finito in carcere. E così Paul Gascoigne, del quale il Dailymail e il Sun hanno pubblicato alcune foto mentre, tenendo una bottiglia di liquore in mano e seminudo, chiedeva aiuto ad un amico. Peggio è finita a Vinicius Rodrigues Borges, meglio conosciuto come Breno, calciatore del Bayern Monaco, condannato a 3 anni e 9 mesi di carcere per incendio doloso dopo aver dato fuoco alla propria casa. O al tunisino Nizar Trabelsi, ex centrocampista dello Standard Liegi e del Fortuna Dusseldorf, arrestato a settembre 2001 perché sospettato di essere in procinto di attaccare l’ambasciata statunitense a Parigi con un’azione suicida (nel 2003 venne condannato a 10 anni di carcere ed estradato negli Stai Uniti).
La vita di molti calciatori è diversa da quella che molti adolescenti immaginano. All’inizio vengono pagati (a volte profumatamente) ma diventano oggetti, pedine di un mondo che li sfrutta sotto tutti i punti di vista: umano, fisco e psicologico. Poi, quando non servono più alla squadra, vengono buttati via. È allora che per molti di loro inizia l’inferno. É un destino che accomuna molti di loro: secondo uno studio di Lombard International Assurance, in Europa il 40% dei calciatori rischia di diventare povero dopo appena cinque anni dal giorno del ritiro. Non solo in Italia. In Francia sono a rischio povertà 1 calciatore su 2. E in Gran Bretagna questa percentuale sale al 60%. Analoga la situazione negli USA. Qui lo sport di massa è il football americano e il 78% dei giocatori professionisti rischiano di trovarsi sul lastrico dopo due anni dal termine della loro carriera.
Le cause sono sempre le stesse: nonostante stipendi da favola molti di questi sportivi hanno difficoltà nel “riconvertirsi” professionalmente. Spesso, al termine della loro carriera, devono sostenere costi sanitari elevati. Molti di loro diventano ricchi quando sono ancora molto, troppo giovani per pensare a mettere da parte qualcosa per il futuro. E quelli che lo fanno spesso sono finiscono per fare investimenti errati. Quando la loro carriera finisce, magari prima di quanto loro stessi pensavano (e pensano di poter mantenere lo stesso stile di vita anche dopo l’addio al calcio) è troppo tardi. Per loro, come è successo a Maurizio Schillaci, la via della strada è difficile da evitare.
E per molti di loro non resta nemmeno il piacere di essere stati, almeno per qualche anno, l’idolo per schiere di ragazzini appassionati di calcio.
Foto: tuttocampo.it