Brunello Rondi (Tirano, 1924 – Roma, 1989) è un regista di scuola pasoliniana che lascia il segno per alcuni drammi erotici e diverse pellicole dal taglio psicanalitico a metà strada tra il cinema di genere e l’impegno d’autore. Attivo nel cinema sin dal 1946 come aiuto di Luigi Chiarini, Roberto Rossellini (Francesco giullare di Dio -1950, Europa ’51 – 1952, Era notte a Roma – 1960) e Alessandro Blasetti (Altri tempi – 1951). Il regista che segna maggiormente la sua crescita artistica è Federico Fellini con cui collabora per circa trent’anni sia come aiuto che nelle vesti di sceneggiatore. Ricordiamo la sua partecipazione a veri capolavori come La strada (1954), Il bidone (1955), La dolce vita (1960), Otto e mezzo (1963), Giulietta degli spiriti (1965), Satyricon (1968) e Prova d’orchestra (1979). Non interrompe mai l’attività di sceneggiatore e scrive soggetti importanti del cinema italiano come Arabella (1967) diMauro Bolognini, Amanti (1968) di Vittorio De Sica, Scacco alla regina (1969) di Pasquale FestaCampanile e Le sorelle (1969) di Roberto Malenotti. Ricordiamo anche una buona attività come critico, saggista e insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia. Una sola prova da attore guidato da Luciano Salce in un piccolo ruolo ne Le ore dell’amore (1963). Fratello del critico cinematografico Gianluigi Rondi. Il suo tratto di autore consiste nell’aver tratteggiato con profondità psicologica alcune figure femminili inquietanti e problematiche.
Brunello Rondi dirige in proprio molti cortometraggi ed esordisce alla regia nel 1962 con Una vita violenta, diretto a quattro mani con Paolo Heusch. Il film è interpretato da Franco Citti, Serena Vergano, Enrico Maria Salerno, Angelo Maria Santiamantini, Alfredo Leggi, Benito Poliani, Giorgio Sant’Angelo e Michaela Dazi. Rondi sceneggia il romanzo di Pier Paolo Pasolini e cala molto bene Franco Citti nella parte di Tomaso Puzzilli, un borgataro che frequenta ambienti neofascisti, vive alla giornata di rapine e violenze. Serena Vergano è Irene, la fidanzata che potrebbe redimerlo, così come Enrico Maria Salerno è il sindacalista che cerca di fargli capire le ingiustizie della società. Tomaso muore per salvare una donna durante un’alluvione, si getta in acqua e compie un gesto eclatante quanto spavaldo per lui che era stato da poco dimesso da un sanatorio.
La pellicola viene realizzata da un team di soggettisti e sceneggiatori come Franco Brusati, Ennio De Concini, Franco Solinas, Brunello Rondi e Paolo Heusch. La musica suggestiva di Piero Piccioni accompagna lo spettatore alla scoperta di notturni romani, risvegli nebbiosi, borgate cadenti e panoramiche suggestive d’una capitale d’altri tempi. La fotografia di Armando Nannuzzi è superlativa, forse una delle cose migliori di una pellicola che si ricorda per molte istantanea d’una città addormentata percorsa da ragazzi sbandati. Sergio Citti, borgataro vero e attore pasoliniano, collabora ai dialoghi per una resa più realistica. La pellicola è più riuscita di un romanzo che non convince la critica, qualcuno parla di narrativa deamicisiana e di classe operaia troppo idealizzata. Tomaso è un personaggio vero, magari meno poetico del protagonista di Accattone (1961) e del romanzo di Pasolini, ma molto concreto e per niente esemplare. Brunello Rondi debutta con un film eccellente che la critica del tempo snobba ma che adesso deve rivalutare. Paolo Mereghetti nel celebre Dizionario concede ben due stelle e mezza, sottolineando l’indipendenza dal modello pasoliniano e la stupenda fotografia di Armando Nannuzzi.
Una vita violenta riproduce in maniera realistica il mondo delle borgate romane, fotografa le case del popolo, i balli della povera gente, le partite a carte in trattoria, i mezzi litri di vino, le baruffe politiche e le prime ingenue contestazioni. Il regista fa conoscere il mondo in bianco e nero di comunisti e fascisti, le lotte ideologiche per un’idea poco chiara ma intrisa di forti sensazioni. Il cinema è presente nella pellicola, come citazione di un nuovo mezzo di comunicazione, ma anche per inserire una contestazione neo fascista a Il generale Della Rovere di Rossellini. Un suggestivo bianco e nero immortala le prodezze al negativo di neofascisti che rubano, violentano, stuprano, picchiano e rapinano durante notti disperate. Il regista descrive con dovizia di particolari una vita scellerata e costruisce personaggi complessi, mai del tutto negativi. Tomaso assiste impotente a un grave incidente che coinvolge un amico, ma tempo dopo evita di incontrarlo perché lo vede privo di una gamba mentre chiede l’elemosina. Il rapporto tra Tomaso e la fidanzata è ben descritto, il borgataro ama nel solo modo possibile per uno come lui: violento, goffo, disperato. La sequenza al cinema mentre scorrono le immagini di un peplum con protagonista Ercole è sessualmente spinta e fa capire come avvenivano gli approcci con l’altro sesso nei primi anni Sessanta. I protagonisti hanno volti pasoliniani, fanno tenerezza mentre cantano serenate, giocano a biliardo, scherzano tra loro, ma irritano quando il regista mostra il lato perverso e le scorribande ai danni della povera gente. Tomasi è capace di innamorarsi, ma al tempo stesso ruba, violenta, accoltella, finisce in galera e commette atti scellerati. La parte che vede Citti in prigione è molto rapida, al regista interessa soprattutto mostrare il cambiamento repentino di Roma e il nuovo potere dei preti che fanno assegnare case e trovano lavoro ai poveri. Tomaso esce di galera e si rende conto che la sua famiglia non vive più in borgata ma in un nuovo condominio popolare. L’Italia cambia, comanda la Democrazia Cristiana e il protagonista pensa di iscriversi a quel partito perché sembra una mossa vincente. Il borgataro ha trovato gente giusta che lo aiuta, in fondo non è mai stato fascista, ha soltanto frequentato amici che idealizzavano Mussolini e conducevano scorribande notturne. Rondi presenta ottimi squarci della campagna romana, alterna nuovi condomini popolari a baracche cadenti, immondizia e campi incolti, bambini che corrono e strade illuminate da lampioni e vetrine sfavillanti. L’Italia del boom economico è dietro l’angolo, ma per i poveri ci sono le incertezze di sempre. Tomaso ritrova la sua ragazza, amoreggia in un campo sopra un pezzo di cartone, come sempre è violento, geloso, rozzo, ma tenta di dimostrare il suo amore. Il ragazzo sta male, tossisce sangue, scopre di avere la tubercolosi e si deve ricoverare. La parte in sanatorio è ben fatta, soprattutto quando Tomaso si trova alle prese con un’inconsapevole coscienza di classe. Il ragazzo assiste a una manifestazione sindacale e aiuta a fuggire alcuni partecipanti braccati dalla polizia. “Ma co’ sta voglie di rivoluzione che c’avete in testa non siete manco boni a anda’ pe’ tetti?” domanda. In ogni caso li aiuta, pensa di aver capito che lottano per gli interessi dei poveri, ma non è convinto fino in fondo. “So’ stato ricco e non lo sapevo”, mormora mentre vede due ragazzi che si baciano e il pensiero va ancora alla sua donna. Il finale è drammatico e conserva lo steso stile deamicisiano che molta critica letteraria contesta al romanzo di Pasolini. Il gesto eroico, un nuovo malore, la ragazza e gli amici che vanno a fargli visita mentre lui sta morendo. “Ma che piagnete a fa’? Ma che morite voi?” grida. Vuole soltanto un ultimo saluto: “Diteme almeno addio Tomaso”. Stupenda l’ultima sequenza con la madre che chiede: “Cosa vuoi Tomaso?”. La risposta è laconica: “E che devo da vole’?”. Soltanto la morte.
Il demonio (1963) è una coproduzione italo francese caratterizzata da un’approfondita analisi psicologica e comportamentale dei personaggi, tratto d’autore indelebile di Rondi. Il film è scritto dal regista con la collaborazione di Ugo Guerra e Luciano Martino. Le musiche, colte e suggestive, sono di Piero Piccioni. Intensa fotografia lucana di Carlo Bellero. Interpreti: Daliah Lavi, Frank Wolff, Anna Maria Aveta, Tiziana Casetti e Dario Dolci. Il film può essere letto anche come un horror esorcistico ambientato nelle campagne lucane e girato prima de L’esorcista (1973) di William Friedkin. Tra l’altro ci sono alcune parti in cui è innegabile l’influenza di Rondi su Friedkin, soprattutto durante la scena del tentato esorcismo in chiesa. Il prete solleva il crocefisso, spruzza acqua benedetta e l’indemoniata gli sputa in faccia, mostra la lingua e cammina a ritroso inarcando le spalle come un ragno. La trama è semplice. Purificata è disperata perché Antonio sposa un’altra donna, fa una fattura con fuoco, sangue e capelli, gli fa bere il suo sangue e comincia a comportarsi da indemoniata. Tutto il paese si convince che Purificata è una strega, soprattutto quando dice di aver incontrato al fiume un bambino morto. Prova a liberarla dal maligno un vecchio stregone di paese e anche il parroco locale, ma gli esorcismi risultano inutili. I compaesani, guidati dal suo ex amante, cingono d’assedio la casa, catturano la donna e la obbligano ad andarsene. Purificata ripara in un convento, continua a dare segno di possessione, resta affascinata morbosamente da un albero dove un ragazzo si è impiccato e tenta di uccidere una suora. Molto interessante un rito di purificazione compiuto dai paesani che bruciano l’aria con enormi roghi sulla piazza per eliminare la presenza maligna. Nel finale vediamo la presunta indemoniata che ritrova il suo ex e ci fa l’amore, ma quando si svegliano lui la uccide a coltellate, liberandola per sempre dal demonio. La pellicola è una via di mezzo tra cinema d’autore documentaristico con suggestioni neorealiste e cinema fantastico. Una commistione che ritroveremo sempre nel cinema di Rondi, così come sono presenti i temi politici e soprattutto un deciso discorso anticlericale. Molto brava l’interprete principale, l’israeliana Lavi, dotata di fascino magnetico e grande forza drammatica, al punto che sarà impiegata anche da Mario Bava nell’horror La frusta e il corpo (1963). Daliah Lavi è la vera mattatrice del film, presente in ogni scena con uno sguardo inquietante e penetrante, da vera strega indemoniata. Frank Wolff nei panni dell’ex innamorato è meno bravo e sfodera sempre un’espressione da cattivo dei film western che ha frequentato con assiduità. Si nota la lezione neorealista anche nella scelta di molti attori non professionisti che interpretano loro stessi in diversi ruoli secondari. Brunello Rondi fa passare la pellicola per una storia vera, ma in ogni caso si ispira a superstizioni e credenze ben radicate nell’Italia meridionale dei primi anni Sessanta. Le scene del malocchio, della fattura, i riti magici per purificare un corpo infestato dal demonio e le cerimonie popolari sono riprese con tecnica documentaristica. La fotografia della campagna lucana, dipinta in un suggestivo bianco e nero, è una delle cose più belle del film. I sassi di Matera rappresentano uno scenario cittadino interessante per presentare un matrimonio e subito dopo una cerimonia di purificazione dai peccati.
Domani non siamo più qui (1966) è il terzo film in bianco e nero di Brunello Rondi interpretato da Ingrid Thulin, Robert Hoffmann, Maria Grazia Buccella, Gianni Santuccio, Luigi Vannucchi, Dana Ghia e Umberto Raho. La pellicola è in perfetto stile Rondi e calca la mano sulla psicologia dei personaggi, questa volta senza nessun ricorso al cinema di genere e al fantastico. Siamo in presenza di un puro dramma erotico con una sensuale Ingrid Thulin nei panni della protagonista. Gioia vive in una villa sulla costiera amalfitana e da quando è morta sua figlia ha perso la stabilità emotiva e si dedica a sedurre le persone che si trova accanto. Gianni Santuccio si cala a dovere nei panni del fratello irretito dalla sua morsa erotica, così come Luigi Vannucchi è un credibile medico, pure lui soggiogato dalla mantide amalfitana. Brunello Rondi ama ritrarre le donne e indugiare su psicologia e carattere, si avvale di una coinvolgente colonna sonora di Giovanni Fusco e tenta di realizzare un ritratto di borghesia provinciale annoiata. Non ci riesce fino in fondo perché si perde in qualche manierismo di troppo e ripete cose già dette da Antonioni e Fellini, ma indovina il personaggio che Ingrid Thulin rende con efficacia e credibilità.
Più tardi Claire, più tardi (1968) è un noir di stampo hitchcockiano in bianco e nero sceneggiata dal regista, Vittoriano Petrilli e Giuseppe Mangione. La pellicola si avvale dell’ottima fotografia di Carlo Bellero, ma il pezzo forte sono le musiche di Giovanni Fusco interpretate niente meno che dal flauto di Severino Gazzelloni. Il cast è insolito, perché presenta attori come Jeanine Reynaud e Michel Lemoine, che solitamente lavorano con Jess Franco, accanto a ottime presenze come Gary Merrill, Elga Andersen, Rossella Falk, Adriana Asti, Marina Malfatti, Georges Rivière, e Margarita Robles. Gary Merrill è un ottimo protagonista che torna in Italia dopo un anno dalla morte per omicidio di moglie e figlio per sposare Elga Andersen, sosia della defunta. La storia è ambientata nell’Italia dei primi anni del Novecento e il regista mette bene in evidenza tutte le convenzioni borghesi del tempo. Ne viene fuori un noir insolito, a metà strada tra impegno sociale e cinema di genere, come consuetudine nei lavori di Rondi. Il regista diventa un vero e proprio terrorista dei generi e sperimenta a più riprese gotico e thriller, inserendo pure fugaci elementi di necrofilia.
Le tue mani sul mio corpo (1970) è il primo film a colori di Rondi e rappresenta un passo indietro rispetto alla produzione precedente, anche se il regista continua un interessante lavoro psicologico sui personaggi. Gli interpreti principali sono Lino Capolicchio, Erna Schurer, Colette Descombres, Daniel Sola, José Quaglio ed Elena Cotta. Il soggetto è di Luciano Martino e Francesco Scardamaglia, mentre alla sceneggiatura collabora lo stesso Rondi. Da segnalare un insolito ruolo di montatore per un futuro regista simbolo della commedia sexy come Michele Massimo Tarantini (aiutato da Sandro Peticca) che funge pure da aiuto regista. Bruno Oliviero è il fotografo di scena, mentre l’ottima fotografia è diretta da Alessandro D’Eva. Scenografie di Oscar Capponi, organizzazione generale di Sergio Martino, realizzazione di Mino Loy e Luciano Martino. La colonna sonora di Giorgio Gaslini è molto suggestiva, forse la cosa migliore del film. Tra gli interpreti troviamo Lino Capolicchio, Colette Descombes, Erna Schurer (Emma Costantino), Daniel Sola e José Quaglio.
La pellicola è definibile come un erotico – politico sessantottino irrimediabilmente datato che risulta ancora vedibile solo se storicizzato. Lino Capolicchio è un figlio sessantottino che si ribella alla famiglia, soprattutto al padre editore – capitalista, si abbandona ai piaceri del sesso e a una vita senza scopo. Il ragazzo ritiene di non essere in grado di vivere, insidia la bella matrigna (Schurer) e l’affascinante Descombes, senza arrivare mai sino in fondo, gioca con le donne come con la macchina da presa e le sue fantasie. Il rapporto con la matrigna è di complicità totale, sa che la donna tradisce il marito ma non gli importa, anzi la spinge a tradirlo pure con lui. Mereghetti non apprezza il film, dice che Rondi si prende troppo sul serio e realizza un lavoro approssimativo sul sessantotto visto dalla parte dei figli dei ricchi. Oreste Del Buono non sopporta Capolicchio come interprete principale, ritiene che non sappia ironizzare sul suo ruolo e merita l’Oscar del peggiore odioso. Dal naufragio si salva solo la colonna sonora di Giorgio Gaslini. Non condivido tutto, soprattutto in merito all’interpretazione drammatica di Capolicchio che ho trovato decisamente buona. Trovo che ci siano parti da salvare in questo film senza dubbio minore tra i lavori di Rondi. L’attacco poetico sul mare è molto suggestivo, così come sono intriganti le meditazioni sul suicidio di un giovane ricco annoiato, ma sono interessanti anche i numerosi flashback che riportano al passato e a un rapporto stretto tra madre e figlio. Rondi sviluppa il tema psicanalitico del complesso di Edipo e costruisce una figura di ragazzo suggestionato dal ricordo della madre morta. Il film abbonda di parti oniriche, l’azione fantastica si svolge sul lungomare e vede il ragazzo correre verso sua madre velata di bianco. Rondi utilizza bene la tecnica del primissimo piano e del particolare, inquadrando soprattutto gli occhi per fotografare sensazioni e caratteri. Le inquadrature dei volti sono spesso accompagnate da una musica languida e da ottimi pezzi di pianoforte. Il giovane ribelle è il vero protagonista di un film costellato di note razziste (la finta fidanzata nera che darà alla madre tanti piccoli cannibali) e omofobe (Non sarai mica anormale? rivolto alla cameriera che pare non apprezzare gli uomini), oggi del tutto fuori tempo. Capolicchio impersona un ragazzo introverso, solitario, strano, leggermente paranoico, voyeurista, insomma un vero coacervo di difetti borghesi. Pare evidente un giudizio antiborghese e c’è chi ha visto una sorta di autocritica inserita nel personaggio principale. Rondi gioca con il voyeurismo del protagonista che raccoglie foto rubate e filmati su Carol (Descombres), una ragazza di cui si è invaghito, ma fotografa in pose maliziose persino la cameriera. A un certo punto il ragazzo brucia le pellicole filmate di nascosto, in un gesto eclatante che rappresenta un tentativo di crescere e di abbandonare le fantasie masturbatorie. Rondi cerca di definire il difficile rapporto padre – figlio in un quadro psicologico che va storicizzato agli anni Settanta, così come sono un ricordo del tempo passato le difficoltà di relazione tra i sessi. I sogni di Capolicchio sono la cosa più originale del film e tra tutti citiamo la visione della Descombre appesa a un albero di Natale come se fosse una decorazione. Le tue mani sul mio corpo è una pellicola molto teatrale, girata in lunghi interni alla De Paolis e pochi esterni sul mare, eccessivamente lunga e con un’azione troppo diluita nel tempo. Rondi è molto più bravo nelle pellicole dove affronta la personalità femminile.
Valeria dentro e fuori (1972) prosegue un discorso personale che caratterizza tutta l’opera di Rondi, perché è ancora un film psicologico incentrato su problematiche intimistiche e sul carattere di una donna. Interprete principale nei panni della svedese Valeria è una stupenda Barbara Bouchet, forse nel film più scabroso della sua carriera che passa in televisione solo in una versione tagliata. L’attrice praghese non è amata dalla critica che la vede come un’interprete leggera, da commedia sexy, ma per questo film fa un eccezione e il critico Biraghi su Il Messaggero scrive: “Una Bouchet che non è mai stata così espressiva giungendo a dare di Valeria un ritratto completo, dai turbati smarrimenti alle torve convulsioni da ossessa”. La stessa Bouchet ama molto Valeria dentro e fuori al punto di confessare a Pulici & Gomarasca su 99 Donne: “Quello era un film con scene erotiche ma assolutamente drammatico, io interpretavo una pazza, e potevo anche dar prova delle mie qualità recitative, non solo mostrare il mio corpo…”. Mereghetti aggiunge: “Resta convincente la prova della Bouchet che si spoglia, ma accetta anche di imbruttirsi, e possiede un’energia di rado mostrata nella sua carriera”. Barbara Bouchet è un’attrice affascinante e brava che dà il meglio di sé nel genere comico erotico, ma in questo caso regala un’interpretazione insolita che si ricorda con piacere. Da segnalare che in futuro rifiuterà ruoli simili e lascerà che attrici come Corinne Clery e Stefania Sandrelli interpretino al posto suo film di successo come Histoire d’O (1975) di Just Jaeckin e La chiave (1983) di Tinto Brass. Pier Paolo Capponi è un credibile marito, compositore di avanguardia che non vuole figli a ostacolare il successo e finisce per far impazzire completamente la moglie. Rondi tratteggia bene un carattere cinico ed egoista sin dalle prime sequenze. Capponi obbliga la moglie a fare la lampada perché non la vuole troppo bianca e pretende che parli in svedese mentre fanno l’amore perché si eccita in questo modo. Il regista padroneggia bene la tecnica del flashback che utilizza per far capire le frustrazioni infantili di Valeria. La donna è ossessionata dal sesso fin da bambina, ha visto i genitori mentre facevano l’amore ed è rimasta turbata. La musica sperimentale e lugubre di Bixio accompagna il crescendo di follia di Valeria, pervasa da orribili sogni e da desideri irrisolti. La donna è vittima della sua frustrazione, diventa ninfomane, si concede a un operaio, a un collega giapponese del marito e persino al cognato in ascensore. Rondi abbonda in dissolvenze e immagini oniriche della Bouchet che sogna un delicato rapporto sopra un prato con un uomo in kimono, ma anche in primissimi piani sugli intensi occhi azzurri dell’attrice praghese. Il crescendo di follia è descritto con abilità e la Bouchet dà prova di grandi capacità recitative nella scena del bicchiere rotto, ma pure quando uccide un pesce rosso e mette candele davanti alla foto del marito. I suoi occhi sono spiritati, la risata folle, il carattere tratteggia improvvisi alti e bassi di umore. La parte girata in manicomio è la migliore per realismo e intensità narrativa. Le suore infermiere rappresentano il lato negativo del potere, ma Rondi punta il dito anche su medici ottusi che non lavorano sulla psicologia preferendo farmaci e punizioni. Le parti oniriche sono ottime, rappresentano il sogno di maternità frustrato di Valeria che sogna se stessa vestita di bianco, incinta e donatrice di esistenza. Erna Schurer (Emma Costantino) interpreta un’altra malata di mente vittima di oscuri sogni e immagini di uomini che entrano in camera per violentarla. La sua interpretazione è ottima ed è una perfetta spalla della Bouchet all’interno di un manicomio che presenta una serie di tipologie psichiatriche ben caratterizzate. La Bouchet è imbruttita dal trucco, giorno dopo giorno la sua follia peggiora a contatto con un ambiente dove può solo degradarsi. Il cinico marito va a farle visita ma la spia da una vetrata, non deve farsi vedere per ordine del medico, ma in realtà non gli interessa più di tanto. Per lui la vista del manicomio è solo fonte di ispirazione musicale, è il male puro, senza attenuanti, senza ipocrisia. Il marito ha un’altra donna nella sua vita e la moglie è soltanto un problema. Il manicomio è descritto con crudo realismo senza alcuna retorica e il regista riesce a fare un serio discorso contro le cure psichiatriche praticate in una struttura semicarceraria. Un degente si eccita con le bambole, un’altra recita da soprano, altri ancora mangiano ridendo con occhi spenti ed espressioni allucinate. Valeria decide di fuggire, fa l’amore sopra un camion con altri uomini, finisce per dormire come una bestia tra mattoni, terra e cani. Alla fine viene ripresa dagli infermieri, lacera e sporca, ridotta a una larva incapace di reagire in mezzo alla follia dei degenti. La desolazione del manicomio è ben descritta, tra persone annullate nella loro volontà, assurde punizioni, camicie di forza e punture lombari. Rondi porta la lezione neorealista all’interno di un ospedale psichiatrico e la contamina con un discorso politico – sociale. La sequenza di lotta in giardino tra la Schurer e la Bouchet è perfetta come indice di totale follia e vede protagoniste due donne che si contendono il ruolo di Madonna. Nel finale vediamo Valeria costretta a restare dentro al manicomio, ma una dissolvenza onirica mostra la donna che stringe in braccio un figlio e abbandona sorridendo l’ospedale. La pellicola vede tra gli altri interpreti Claudio Gora, Umberto Raho, Maria Mizar, Liliana Pacinotti e Rosemarie Lindt. Brunello Rondi sceneggia il film con la collaborazione dello psicologo Aldo Semerari che lo aiuta nella costruzione del carattere di una donna repressa dal marito nel desiderio di maternità. Rondi prosegue un discorso critico nei confronti della borghesia italiana ma fa pure una seria denuncia nei confronti degli ospedali psichiatrici. Mereghetti concede una stella e mezza a un film che giudica irrisolto, enfatico, gridato, sensazionalista, ambiguo nelle premesse (tradizionaliste) e negli effetti (Valeria rimane sempre un oggetto sessuale e nula più). Ottime le musiche sperimentali di Franco Bixio, ma anche la fotografia di Claudio Racca non è da sottovalutare. Il titolo originale del film doveva essere semplicemente Valeria, ma la produzione pensò bene di aggiungere un ammiccante dentro e fuori pensando di richiamare un pubblico maggiore.
Racconti proibiti… di niente vestiti (1972) è un decameroticosuperiore alla media dei prodotti del periodo soprattutto perché non si limita a volgarizzare il discorso pasoliniano. Rondi scrive e sceneggia il film con la collaborazione di Roberto Leoni e Gianfranco Bucceri. Produce Oscar Brazzi. Interepreti: Rossano Brazzi, Barbara Bouchet, Ben Ekland, Janet Agren, Mario Carotenuto, Leopoldo Trieste, Tina Aumont, Enzo Cerusico, Silvia Monti, Antonio Falsi, Michael Forest, Monica Strebel, Magali Noël, Edda Ferronao, Venantino Venantini, Karin Schubert, Didi Perego e Paola Corazzi. Lo schema è tipico del decamerotico e la struttura è quella del film a episodi sviluppati secondo i racconti del pittore Ser Lorenzo (Brazzi) per iniziare alla sessualità il giovane allievo Uccio (Ekland). Il filo conduttore della storia si basa sulla scommessa di Ser Lorenzo che vorrebbe sedurre l’incorruttibile Lucrezia (Bouchet). I racconti vedono protagonista Janet Agren in uno speciale ius primae noctis, Mario Carotenuto come frate dedito più al sesso che alla preghiera, Tina Aumont nei panni di una maga vendicativa di un inetto aiutante (Cerusico), Antonio Falsi sodomizzato da un marito cornuto e Monica Strebel come morte affascinante e procace. Brunello Rondi non fa mistero di ispirarsi a Pier Paolo Pasolini, realizza un bel quadro godereccio del periodo storico, ma non si lascia prendere la mano dalla volgarità. Le belle presenze femminili sono molte, i nudi non sono mai integrali e le scene vengono realizzate con buon gusto. Mereghetti giudica divertente solo l’episodio di Brazzi che seduce la Bouchet, mentre il resto è poca cosa, sia per intreccio che dialoghi. L’episodio che vede protagonista Barbara Bouchet è il più spinto, anche se l’erotismo sadomasochista di cui è pervaso resta sempre a livello di intuizione ed è molto suggerito. Ricordiamo con piacere anche Mario Carotenuto nei panni di un santone furbo e godereccio mentre miracola in un modo molto carnale una sposa che non può avere figli. Nel film di Rondi notiamo molti elementi che anticipano la commedia sexy, soprattutto la sequenza con la donna sopra una scala e l’uomo sotto di lei intento a spiare. La pellicola è girata con attenzione ai particolari, grande cura formale e ottima ricostruzione degli ambienti medioevali. I racconti sono ispirati a Boccaccio e vengono ben sceneggiati, le comparse vengono scelte con attenzione e i loro volti che ricordano i personaggi di Pasolini. Il decamerotico è uno dei primi sottogeneri erotici che nasce in Italia e prende spunto dalla Trilogia della vita pasoliniana, ma è anche il primo a morire e lascia presto il passo alla commedia sexy. In meno di quattro anni vengono realizzate decine di pellicole di diverso valore artistico, molte davvero tirate via. Il film di Rondi resta tra i prodotti migliori, come cast, sceneggiatura e realizzazione fotografica del Medio Evo. Il regista va oltre la comicità sboccata e le trame semplici che coinvolgono mariti cornuti, mogli assatanate, frati impenitenti e suore lascive.
Tecnica di un amore (1973) segna il ritorno di Rondi al dramma erotico all’interno di una famiglia borghese, genere più congeniale del comico sexy in salsa medievale. Il regista scrive e sceneggia il film con la collaborazione di Silvia e Piero Regnoli, anche se visto oggi è evidente che i dialoghi troppo datati. La musica intensa di Albert Verrecchia accompagna le scene più inquietanti e sottolinea il dramma che si sta per compiere. Claudio Racca realizza una fotografia perfetta tra le scogliere di un mare incontaminato e una villa di periferia. Le scenografie di Luciano Vincenti non sono da meno, soprattutto per costruire la dimora della famiglia borghese, rappresentata come un castello inespugnabile. Il montaggio di Marcello Malvestito poteva essere più serrato, ma rispetta i tempi del dramma erotico, genere che al cinema non si fa più perché assorbito dalla fiction televisiva. Interpreti: il televisivo Silvano Tranquilli, l’immancabile Erna Schurer (Emma Costantino) e l’affascinante svedese Janet Agren. Completano il cast Norberto Botti e Paola Corazzi. Rondi racconta la crisi di un matrimonio dopo dieci anni di menage tra la Schurer e Tranquilli, uno scrittore che si guadagna il pane inventando slogan politici. La giovanissima svedese Monika e l’amico Yorgo (Botti) irrompono nella noia di una famiglia borghese, riaccendono nei coniugi la passione sopita, fino ad arrivare allo scambio di coppie. Finale drammatico.
Segnaliamo alcune parti di intenso erotismo che cominciano a farsi largo sin dall’imprevista apparizione del corpo nudo della giovanissima Monika. Janet Agren interpreta una parte da lolita maliziosa perfetta, una ragazzina conturbante che irrompe nella vita monotona di un cinquantenne e lo fa uscire di testa. Il regista descrive bene la crisi della coppia tra lunghi silenzi e liti furibonde, ma si supera quando riprende un amplesso matrimoniale alternando immagini del corpo nudo della ragazzina. Il marito tradisce la moglie con il pensiero mentre fa l’amore con lei. Silvano Tranquilli è uno scrittore fallito, costretto a scrivere quello che vogliono gli altri. Erna Schurer è una moglie insoddisfatta che vorrebbe riaccendere la passione dei sensi ed essere considerata ancora una donna attraente. I due ragazzi portano la novità erotica nel rapporto in crisi e spingono la coppia al reciproco tradimento, per provare l’ebbrezza di accarezzare un giovane corpo da possedere. La cosa migliore del film resta l’interpretazione maliziosa di Janet Agren che provoca lo scrittore in tutti i modi, esibendosi con il suo ragazzo e mostrandosi seminuda. “Prova se sono una puttana”, sussurra morbosa e tentatrice, allargando le gambe e tenendo in mano un alare del caminetto a forma di piccola forca. L’uomo tenta di scrivere e lei compie una danza erotica sul tavolo, stuzzica i sensi sopiti che si stanno risvegliando. In un’altra sequenza morbosa vediamo la Agren allargare le gambe e scoprire il seno, mentre si trova sul bordo di un precipizio e invita Tranquilli a raggiungerla. Lo scrittore desidera la ragazzina ma lei si nega, tirando la corda della malizia sino al limite estremo. La moglie non è meno attratta dalla bellezza del ragazzo, ma in questo caso è lei a esitare, sino a quando non decide di lasciarsi andare. La giovinezza irrompe nella casa borghese, sconvolge la routine e la noia di un rapporto sempre uguale. Lo scambio di coppie è vissuto come un sacrificio rituale, i due ragazzi seducono la coppia matura che si lascia andare al gioco perverso. La moglie non regge al tradimento. Al mattino esce presto, entra i mare e si lascia annegare (una scena simile la ritroveremo nel finale de La ragazza di Trieste di Pasquale Festa Campanile, 1982), forse per la vergogna del gesto compiuto e per non aver saputo resistere alla tentazione. Il marito raccoglie il corpo privo di vita sul bagnasciuga (non è ammarato troppo presto?) e uccide a colpi di fucile i due ragazzi in fuga sulla scalinata antistante la scogliera. L’uomo rivive tutte le provocazioni passate mentre scarica la sua rabbia repressa nel duplice omicidio. Tecnica di un amore è un melodramma erotico psicologico, critico nei confronti di un’istituzione borghese come il matrimonio, ma al tempo steso malizioso e perverso. Un film che racconta il nostro tempo, soprattutto il tramonto di un’epoca e la decadenza della famiglia borghese. Rondi è generoso nel mostrare le acerbe nudità della Agren, soprattutto mentre fa il bagno nuda e subito dopo si espone ai raggi del sole, ma la visione del regista resta cupa e angosciante. L’erotismo di Rondi è lontano mille miglia dalle visioni di autori come Brass o D’Amato, non è mai giocoso e liberatorio, ma sempre punitivo e crudele. Da riscoprire.
Ingrid sulla strada (1973) è un film molto curato che si avvale della fotografia di Stelvio Massi e delle musiche intense e suadenti di Carlo Savina. Janet Agren è l’affascinante e tormentata interprete principale, ma sono degni comprimari la prostituta tutta cuore Francesca Romana Coluzzi e il borgataro neonazista Franco Citti. Bravissimo Enrico Maria Salerno nei panni del borghese vizioso che si eccita con donne di strada, fingendo una resurrezione della moglie durante una seduta spiritica. Completano il cast un allucinato Fred Robsham, pittore informale di taglio sessantottino, Bruno Corazzari e Franco Garofalo. Ingrid sulla strada dimostra ancora una volta le intenzioni psicologiche di Rondi che vanno di pari passo alla condanna delle convenzioni borghesi, a un netto anticlericalismo e all’analisi pasoliniana delle borgate romane. Ingrid è una ragazza finlandese che scappa di casa dopo essere stata violentata dal padre (lo scopriamo soltanto alla fine grazie a un ottimo flashback onirico) e decide di fare la puttana per vivere. Rondi è molto attento ai particolari ed è un regista di grande cura formale che realizza sin dalle sequenze iniziali con una pregevole fotografia nordica. Janet Agren è in fuga verso Roma, si rifà il trucco nel bagno, toglie gli slip (“Non li metterò mai più” dice), indossa stivaloni alla moda e minigonna vistosa. La scena durante la quale si fa possedere in piedi nel bagno dal suo primo uomo e subito dopo esige una forte somma di denaro è molto cruda, anche se poco realistica. Ingrid è una puttana sui generis, acquista riviste porno per documentarsi, non vuole confidenze dai clienti, non si spoglia completamente, si vende agli uomini e festeggia la sua scelta di vita. Rondi insiste sui particolari erotici ma la visione delle nudità della bella svedese non è gratuita. Ingrid incarna lo spirito ribelle e anticonformista tipico del periodo storico, scandalizza una signora anziana, paga il biglietto sul treno con i primi soldi guadagnati e si ritrova a Roma. Stelvio Massi realizza una bella fotografia di Roma e il regista ci porta a passeggio per piazza del Vaticano, la scalinata di piazza Navona e gli angoli più beli della capitale. L’incontro con la prostituita romana Claudia (Francesca Romana Coluzzi) avviene in modo surreale, ma Rondi non si cura di rendere credibili le situazioni, quanto di comunicare una certa idea. Ingrid salta a bordo di un calesse ed entra a far parte di un gruppo di donne che fanno la vita sotto la vecchia circonvallazione. Claudia dorme da un amico che fa er pittore, uno de quelli che insozzeno le tele ed è proprio a casa sua che la porta dopo essersi liberata di alcuni ragazzini che la seguono in vespa. Il pittore è un ottimo Fred Robsham, allucinato quanto basta, convinto di essere un artista anche se dipinge incomprensibili quadri informali, amante della prostituta che dorme sotto lo stesso tetto della moglie. L’ambientazione della pellicola nelle borgate romane e nel mondo della prostituzione di strada è molto pasoliniana. Le puttane lavorano sotto il raccordo anulare, ognuna ha il suo settore, un protettore, un giro di clienti. Rondi critica il perbenismo piccolo borghese con battute come: “Che vergogna! E che cosce…”, segno che i passanti disprezzano ma vorrebbero comprare. Ingrid è troppo bella, nessuno si ferma da lei, spaventa i possibili clienti che non possono crederla una donna di strada. Enrico Maria Salerno interpreta un piccolo ruolo che è molto importante nel’economia della pellicola. Il suo personaggio serve a puntare l’indice accusatore sui vizi privati e le pubbliche virtù della borghesia romana. Salerno ingaggia le due prostitute per un rituale erotico con la complicità della moglie, ma prima mette in scena un monologo poetico a bordo della Mercedes. “Sono solo in una città è vecchia… ci sono più fantasmi che uomini… ci sono molte luci anche in un cimitero… è una città piena di niente”. Tutto molto teatrale, anche se la recita si conclude con la scoperta che le sue parole fanno parte di un gioco erotico. Rondi ironizza sull’arte informale e sui presunti capolavori che certa critica contemporanea non esista a incensare. Il personaggio del pittore allucinato serve anche a questo ed è divertente la sequenza del lancio di una bambola che si appiccica alla tela e va a far parte di un nuovo capolavoro. Franco Citti è il capo di una banda neonazista (si ripete un tema caro a Rondi come in Una vita violenta), protegge Claudia e concede ospitalità alle due ragazze. Ingrid non lo sopporta e lo sfida apertamente. “Io sono libera! Vado con chi voglio! Odio i papponi” dice. Citti non la fa lavorare, interrompe un rapporto con un cliente, fa accerchiare l’auto dalla sua banda di borgatari e cerca di imporre le sue regole. Franco Citti interpreta un rude capo banda che punisce i traditori con assurdi metodi. La scena della tortura al colpevole Luciano Rossi è un esempio di come si faceva il cinema negli anni Settanta, in piena libertà e senza costrizioni televisive. Il traditore è costretto a mangiare la merda con il volto immerso in un pitale e subito dopo Citti gli taglia la lingua in un trionfo di sangue. Ingrid sulla strada si ricorda tra gli amanti del cinema di genere soprattutto per questa parte eccessiva che sta a metà strada tra il cinema di Pasolini (Salò e le 120 giornate di Sodoma, 1975) e quello di Joe D’Amato. Brunello Rondi è un regista interessante proprio perché non decide mai completamente a favore di un cinema d’autore e resta sempre prigioniero di alcune convenzioni di genere. La parte finale del film è ancora più dura e vede protagonista Ingrid, rapita e stuprata dal gruppo neonazista. Gli eccessi si susseguono a un ritmo forsennato con la ragazza denudata, drogata, portata a cavalcioni e infine violentata dal branco. “Perché sei venuta in Italia?” grida Citti. In quel preciso momento lo spettatore assiste alla scena della violenza carnale subita da parte del padre e rivissuta come un flashback onirico. La ragazza viene violentata mentre sta dipingendo, si sente sicura perché è in casa con il padre, ma è proprio lui a tradirla mentre si dedica alla sua passione. Lo spettatore comprende perché Ingrid era sconcertata dalla vista dei quadri nella casa del pittore. Rondi ironizza anche sui registi poco abili. Citti impugna una videocamera e riprende la scena di Ingrid violentata dal branco. “Non usate lo zoom che è roba da dilettanti!” dice. La banda riprende il film della violenza per rivenderlo a peso d’oro, ma in quel momento irrompe Claudia e Citti la uccide con una coltellata. Il finale è melodrammatico, perché Citti non voleva ucciderla, è stato un tragico errore. Ingrid, violentata ancora una volta, cerca di tornare sula strada, ma è ancora più sola, viene cacciata dalle altre puttane e decide di suicidarsi. Sente la voce di sua madre. “Ora vengo…” dice. Una scavatrice che rimuove enormi pietre le fa cadere addosso del materiale inerte e lei resta schiacciata. Mereghetti dice che premesse e finale gridano vendetta, inoltre Rondi mescola con disinvoltura il patetismo con il grottesco, indovinando solo qualche caratterizzazione. Per Mazrco Giusti è una storia di perdizione e mignotte alla Brunello Rondi, ma anche un melò erotico anni Settanta (Stracult). Concordo sul fatto che sia un film da recuperare.
Prigione di donne (1974) è sceneggiato dal regista con la collaborazione di Leila Buongiorno e del criminologo Aldo Semerari, assassinato nel 1982 dalla camorra con cui aveva rapporti poco chiari. Collaboratore artistico alla pellicola è lo spagnolo José Sanchez Alvaro, la fotografia è di Gino Santini, il montaggio di Giulio Berruti, le musiche di Albert Verrecchia e le scenografie carcerarie di Oscar Capponi. Produce Carlo Maietto per Thousand. Tra le interpreti citiamo Martine Brochard, Marilù Tolo, Erna Schurer (Emma Costantino), Katia Christine, Christine Galbo, Maria Cumani Quasimodo, Aliza Adar, Luciana Turina e Corrado Gaipa.Il film racconta la storia di Martine (Martine Brochard), una turista francese, arrestata per errore e accusata ingiustamente di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti. Martine è una ragazza ingenua e idealista, spera che la giustizia trionfi, accetta la sua sorte con rassegnazione, ma alla fine solidarizza con le altre detenute e partecipa a una rivolta carceraria che finisce male. Rondi abbonda nell’uso del flashback per alternare passato e presente in rapida successione e per costruire la psicologia dei personaggi. Numerosi i primi piani delle detenute, risate, occhi penetranti, volti feriti dalla vita e inquietudine davanti alla negata libertà. La pellicola è intrisa di crudo realismo, le scene girate all’interno del carcere sono incisive e graffianti, la descrizione dell’ambiente è fredda e priva di retorica. L’ora d’aria è un momento atteso per ballare con la musica di un vecchio giradischi, ma anche per fantasticare sulle piccole cose della vita che si vorrebbero recuperare. La condizione delle detenute è trattata da Rondi con indulgenza, i volti delle protagoniste ricordano i ragazzi di vita di Pisolini e si nota una certa simpatia nei confronti della povera gente. Notevole la polemica antireligiosa, soprattutto contro le gerarchie ecclesiastiche rappresentate da suore che obbligano a seguire il rosario in cambio di un liquore. La madre superiora è il potere arrogante e stupido, ma anche l’ipocrisia di chi non comprende le sofferenze del prossimo. Rondi filma punizioni disumane subite da donne legate a un tavolo, sfamate con un tozzo di pane e tenute in ambienti insalubri in compagnia di topi. La macchina da presa riprende una doccia tra donne ma non è una sequenza masturbatoria. La doccia delle detenute è un momento di liberazione intriso di pietas, soprattutto quando una ragazza si accarezza e pensa all’uomo che l’attende oltre le sbarre. Il regista punta il dito sulla censura, perché le detenute possono leggere giornali e ascoltare notiziari ma rigorosamente tagliati dalle forbici dei magistrati. “Cosa credi che la censura ci sia soltanto al cinema?” dice Marilù Tolo. Evidente la polemica di un regista impegnato politicamente e spesso censurato da solerti magistrati. Rondi vuol dire che in carcere tolgono la dignità, non ti permettono di essere te stesso, ti costringono a sognare la libertà nel volo di un aereo e nel ricordo del mare. Alcune immagini sono facili e velate di retorica, come quando Martine alza gli occhi verso il cielo e segue il volo di un aereo, oppure durante un’esplosione di grida alla vista di un filmato che riprende il mare. La scena della mensa con un topo nel pentolone e la suora che assaggia il minestrone è un momento di ribellione silenziosa, ma anche l’esibizione della Tolo davanti al secondino è un’altra sequenza di lotta al potere combattuta con armi femminili. Emblematica la morte di una carcerata, uccisa da suore bigotte che non fanno praticare il raschiamento dopo un aborto. È la miccia che fa scoppiare la scintilla della rivolta carceraria, forse il momento più intenso e realistico della pellicola. Rondi filma un rogo liberatorio provocato dalle carcerate che bruciando i documenti pensano di distruggere il passato e di modificare il presente. La Brochard piange e mormora che dopo sarà peggio, ma le compagne picchiano le aguzzine, le spogliano e le riducono in loro potere. La ribellione viene sedata dalla polizia con un’azione antisommossa a base di lacrimogeni e manganelli. Rondi ci tiene a mostrare il cinismo della televisione inserendo il personaggio di un reporter che filma impietosamente. Una detenuta si suicida gettandosi dall’alto della torre e la televisione pensa soltanto allo spettacolo: “Tieniti pronto che quella si butta! La diamo stasera durante il telegiornale…”. La scena del suicidio è accompagnata da musica intensa che trasforma in melodramma una pellicola di denuncia carceraria. Le detenute più pericolose vengono trasferite in un’isola e adesso il mare diventa un incubo, non rappresenta più la speranza di libertà, ma circonda e definisce un luogo dal quale non si può scappare. La risacca delle onde diventa insopportabile, il mare porta la sua voce lugubre nella cella, sembra un pianto languido, sbatte sulle mura e toglie la speranza. Una scena gratuita ma realistica mostra le carcerate mentre impiccano il cane del direttore del carcere, invidiose della sua libertà. I desideri più semplici delle detenute sono sogni impossibili: una giornata di vacanza, un ristorante, ballare, la musica, persino la folla del metrò durante le ore di punta. Una bella scena d’amore di gruppo tra carcerate ancora una volta riveste valore simbolico ed è priva di intenzioni erotiche. L’amore rappresenta l’unica possibile forma di libertà per riuscire a godere anche in carcere la bellezza della vita. Bello e intriso di speranza il finale. Martine torna a casa. Un giudice decide che nei suoi confronti non si deve procedere. Il regista riprende i primi passi da donna libera tra due file di agave spinosa e in controluce filma un volto che esplora l’orizzonte. Una bella fotografia insulare alterna una nave che attracca, i ricordi di Martine, passato e presente che si confondono. Pare evidente che la sua vita non sarà più la stessa, perché l’esperienza del carcere è indelebile. Prigione di donne èqualcosa di più di un women in prison, perché è un lavoro attento all’aspetto di denuncia sociale. La prigione rappresenta il calvario della Brochard e il regista sfrutta le convenzioni del genere per mostrare le sofferenze della detenuta. Rondi resta sempre sospeso tra genere e tentazioni d’autore e anche in questo film non modifica il suo atteggiamento. La macchina da presa mostra perquisizioni corporali, docce con masturbazioni, rapporti saffici tra detenute e brutali secondine. Per Mereghetti il film merita una stella e mezza, soprattutto per le intenzioni libertarie, ma i luoghi comuni abbondano, le attrici sono pessime e Rondi si aggrappa comicamente a ogni pretesto per spogliarle. Mereghetti riconosce che la pellicola è su un altro piano rispetto ai coevi women in prison soprattutto perché presenta simpatia e un minimo di rispetto per i personaggi. A nostro parere le attrici non sono così pessime, anche se Martine Brochard è costretta a recitare un ruolo da ingenua innocente che ne limita carisma e potenzialità espressive. Marilù Tolo è brava nei panni di Susanna, sensuale e bugiarda prostituta tradita dall’amante magnaccia che le nega pure la maternità. Rondi approfondisce psicologicamente il suo personaggio e la rende vera protagonista del film. Bene anche Erna Schurer, attrice feticcio di Rondi, bella e sensuale, pure se meno carismatica della Tolo. Prigione di donne presenta un erotismo soffuso, mai esibito, ma appena suggerito, basato su allusioni e immagini rubate. Un prolungato rapporto saffico tra prigioniere è girato con la tecnica della dissolvenza, alterna il mare sulle scogliere all’amore di gruppo, inoltre ha valore liberatorio, dopo la repressione nel sangue della rivolta carceraria. Un’altra parte erotica esibita vede protagonista una suora aggredita e denudata dalle detenute in rivolta, ma è più importante la costernazione della religiosa che la sua nudità. Prigione di donne presenta un erotismo suggerito e latente, diverso dalle esibizioni gratuite di pellicole inserite nello steso genere.
I prosseneti (1976) è scritto e sceneggiato dal regista che sceglie come interpreti Alan Cuny, Juliette Mayniel, Stefania Casini, Luciano Salce, Silvia Dionisio, Ilona Staller, Jean Valmont, José Quaglio, Consuelo Ferrara, Sonia Jeanine, Gabriella Lepori, Marina Pierro e Sofia Dionisio. La musica, intensa e coinvolgente, è dell’ottimo Luis Enriquez Bacalov. Prosseneta è un termine colto di origine greca, in origine aiutante degli ospiti, un tempo mediatore o sensale, oggi sta solo per ruffiano e mezzano. La storia si svolge tutta in una villa e racconta le gesta di una coppia di prosseneti che fornisce giovani prostitute a ricchi clienti. I protagonisti sono oggetto di un’indagine psicologica abbastanza accurata da parte di Rondi che ama costruire personaggi problematici. Alan Cuny è un marito pseudo intellettuale che vaneggia sulla caducità della vita e sul tempo che fugge, Juliette Mayniel collabora con lui alla turpe attività ma è piena di sensi di colpa. I clienti della coppia sono personaggi estrapolati del mondo borghese che viene tratteggiato con un ritratto impietoso con un’evidente ispirazione buñueliana. Luciano Salce è un perfetto regista teatrale di poco conto, ma altri personaggi interessanti servono a calcare la mano su un discorso antimilitarista e anticlericale. La figlia di una donna torturata viene soggiogata da un losco figuro che desta in lei il desiderio di rivivere sul proprio corpo le sofferenze patite della madre. Un ambasciatore impone alla partner di reincarnare la donna amata, una ragazza viene costretta a prostituirsi e una spregiudicata diciottenne mette in scena un’orgia tra gli ospiti della villa. Brunello Rondi procede nel consueto discorso d’autore sulla decadenza borghese, a tratti diverte, spesso sa di moralistico, ma in definitiva coglie nel segno e denuncia molti vizi privati nascosti da pubbliche virtù. “Velleitario tentativo di denunciare la mercificazione di cui la donna è oggetto nella nostra società” scrive il Centro Cattolico Cinematografico, ma si fa influenzare dai numerosi nudi femminili esibiti durante la pellicola. Scrive la redazione di Film TV: “Brunello Rondi cerca giustificazioni intellettuali alle sue immagini morbose, e ottiene un risultato opposto alle intenzioni. Senza neppure il coraggio di essere trash fino in fondo”. Chi firma questo giudizio non conosce la storia cinematografica di Rondi, regista da sempre in bilico tra cinema d’autore e convenzioni di genere. Il film è ben definito da Marco Giusti con poche battute su Stracult: “Erotico di denuncia. Insomma alla Rondi. Fantastico”.
Velluto nero (1976) è un esperimento di film erotico interessante solo per aver messo insieme Laura Gemser e Annie Belle (aveva appena interpretato il conturbante Laure, 1975), due bellezze così diverse e capaci di attirare molti spettatori. Rondi mette in atto pure lo stratagemma di chiamarle con i loro nomi di successo: Emanuelle e Laure, facendo uscire sul mercato inglese il film come Emanuelle Black & Withe. Nel cast troviamo anche la bella Susan Scott (Nieves Navarro), Zigi Zanger, Al Cliver (Pier Luigi Conti) e Gabriele Tinti. Non è un film memorabile, anche se presenta alcune trovate originali. La storia è molto debole e viene introdotta dalla frase tratta dagli antichi libri sacri babilonesi: “Il vento su cui si coricano il piacere e il vizio degli uomini è nero come la notte”. La musica di Dario Baldan Bembo è molto suggestiva e tipica del periodo storico, ma il montaggio di Bruno Mattei è lentissimo, così come la regia risulta poco ispirata. Tanto per cambiare c’è molto nudo, spesso fine a se stesso, a differenza degli altri film di Rondi, dove il sesso serve per fare un discorso sociale o di denuncia. Nelle prime sequenze domina la bellezza di Susan Scott, che fa la doccia insieme a uno schiavo, si fa massaggiare e amoreggia a lungo. Arriva ad Assuan una troupe fotografica capitanata dal cinico Gabriele Tinti e si entra nel vivo del film. Ricordiamo le scene in cui la modella Laura Gemser viene fotografata nuda davanti alla carogna di un cane e subito dopo davanti a decine di cadaveri. Il personaggio di Tinti è fumettistico e privo di spessore, è un fotografo senza scrupoli che ha inventato la diva Emaneulle e vuole che esegua i suoi ordini. A modo suo le vuol bene, ma è un uomo violento e amorale, che scatta foto oscene della modella mentre abbraccia lo scheletro di un cane e si esibisce in pose sexy davanti a un cadavere. Le foto scattate da Tinti in mezzo ai cadaveri ricordano i vecchi mondo movies e sono sequenze scioccanti, pure se tutto è finto. Laura Gemser nuda tra i cadaveri rappresenta il trionfo della vita in mezzo alla morte, pure se non condividiamo l’affermazione Il disgusto è educativo che il regista fa pronunciare a Tinti. Laura Gemser viene obbligata a posare nuda anche in mezzo ai rifiuti con lo scopo di realizzare un servizio sconvolgente che possa colpire i benpensanti. Tinti è una sorta di Toscani ante litteram. A un certo punto Annie Belle rapisce la Gemser e le due donne fuggono nel deserto e lasciano solo il cinico fotografo. Un discorso femminista, molto in voga nel periodo, porta alle solite considerazioni sul fatto che la donna non è un oggetto. Il rapporto lesbico Laure – Emanuelle occupa buona parte del film e alcune sequenze di amore saffico sono molto ben riuscite. Annie Belle e Laura Gemser sono brave e ben sfruttate. Gabriele Tinti e Al Cliver risultano patetici e fastidiosi. Susan Scott è una donna che ha avuto tre mariti e attende la figlia Laure, giovane disinibita che al suo arrivo scompiglia la vita del posto. Al Cliver è una specie di santone che riunisce sotto di sé un gruppo di fedeli europei, ma tra loro c’è anche un ex attore del muto un po’ frocio (Fëdor Saliapin). Susan Scott è l’amante del santone e spesso la vediamo disinibita in molte scene di sesso e di fellatio appena accennate. Zigi Zanger è Magda, altra presenza erotica conturbante, che entra in scena a cavalluccio di uno schiavo e poi si abbandona a uno strip sensuale. Il suo ruolo è quello della bianca sadica e perversa che fa l’amore con gli indigeni dopo averli provocati. La sua parte è quella della ninfomane senza limiti che si fa scopare da tutti, pure da una carovana di nomadi. La Zanger si lascia andare anche a un bel rapporto lesbico con la Gemser sul sottofondo di una notevole retorica da figli dei fiori: “Tutta la vita è un rito. Quale rituale meglio della vita?”. Citiamo anche la scena del sogno di Laura Gemser che pensa di farsi accarezzare da molti uomini e quella del successivo sacrificio di un agnello (finto?) con la bella indonesiana che ne beve il sangue. La Gemser pare indemoniata ed è vittima di un rituale del santone Al Cliver, fino a strapparsi i vestiti e a tentare di uccidersi con il fuoco in mano. Alla fine il santone si innamora di Annie Belle e tra loro c’è una buona parte erotica, mentre la madre Susan Scott minaccia il suicidio se la figlia porterà via il suo amante. Si tratta solo di una sceneggiata che la figlia ridicolizza al punto giusto per poi andarsene mano nella mano con Emanuelle. Il finale vede le due attrici che si allontanano nel tramonto e si denudano poco a poco. Il film mantiene una bella atmosfera esotica e un’ottima colonna sonora, le parti erotiche sono abbastanza credibili, ma la trama è inconsistente e il ritmo è fiacco. Da citare una bella fotografia egiziana curata da Gastone Di Giovanni con alcune scene che si svolgono in mezzo ai templi. Rondi fa sfoggio di cultura citando a più riprese Calderon e La vita è sogno, ma la pellicola ha tempi da documentario e non appassiona lo spettatore. Il film rappresenta un opera di culto per gli amanti del trash e del kitsch, soprattutto per il clima da figli dei fiori che vi si respira. La pellicola risulta slegata, frammentaria e a tratti persino delirante, ma se volete vederla consigliamo la VHS edita da Lamberto Forni. Ultima prova cinematografica di Brunello Rondi che firma pure la sceneggiatura su un soggetto di Ferdinando Baldi. Il film si inserisce nella serie Emanuelle girata da Joe D’Amato, ma ne rappresenta un capitolo apocrifo slegato dalle altre pellicole. Mereghetti si chiede se siamo di fronte a un consapevole suicidio d’autore o a un involontario trionfo del kitsch. Non è facile dirlo.
La voce (TV – 1981) è l’ultima opera di Brunello Rondi, ma sarebbe meglio dimenticarla visto che c’entra davvero poco con il resto della sua produzione. Il film presenta come sottotitolo Infanzia e giovinezza di madre Teresa di Calcutta ed è tutto dire, se si pensa all’anticlericalismo sessantottino dei primi film di Rondi. Si tratta di un film televisivo scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Tullio Pinelli, fotografato da Zivko Zalar, montato da Vincenzo Di Santo e musicato da Stelvio Cipriani. La produzione è di Rai Uno in collaborazione con Jadran Film di Zagabria. Interpreti: Marisa Belli, Bekim Fehmiu, Margaret Mazzantini, Liliana Tari, Georgi Teodorovski e Rossano Brazzi. Difficile vedere questo film presentato al Festival del Cinema di Venezia nel 1982, passato su Rai Uno e subito dopo scomparso. Marco Giusti ironizza sulla necessità sentita da Rondi di farsi perdonare dalla chiesa per i precedenti peccati commessi girando film erotici. Giovanni Buttafava su Il patalogo lo definisce un involontario cult – movie sulla vocazione di Madre Teresa di Calcutta, girato come un fumetto devoto. Preferiamo ricordare Rondi per l’erotismo intellettuale di Tecnica di un amore, per la trasgressione di Ingrid sulla strada e per la profondità psicologica di Valeria dentro e fuori. La cifra artistica di Rondi sta tutta nel sapersi barcamenare tra cinema d’autore e tentazione verso i generi, senza mai optare in maniera definitiva per una sola strada.